“Only lovers left alive”, di Jim Jarmush (2013) 

un'indagine

Nuovo sillabario amoroso. Viaggio nell'amore moderno

Ester Viola

L’incontro, la situationship (“tra noi due non c’è niente, però”), il narcisismo, la relazione aperta e il poliamore, il sesso e l’ok dei messaggi controvoglia, il divorzio. Abbiamo davvero l’esaurimento nervoso sentimentale?

Dobbiamo capire come siamo messi. Che futuro abbiamo, se saremo felici, moderatamente contenti o siamo solo destinati a vivacchiare. Quindi occorre ogni tanto – il calendario dice che è fra poco – strologare d’amore. Non in generale. D’amore moderno, con spirito curioso e intento classificatorio. Serve un glossario aggiornato, un abbecedario. Ci hanno provato in tanti, compresa modestamente quella che scrive e che non è della primissima classe, a definire quest’amore nuovo. Da Bauman a Byung-chul Han fino a Lingiardi, tutti notabili. Ogni indizio converge verso la conclusione nera: abbiamo l’esaurimento nervoso sentimentale, siamo deboli, sfrantumati. Inguardabili.

Com’è l’amore moderno? E la famiglia, come sta la famiglia tradizionale? E quelli in cerca del grande amore, loro, come se la passano? Il rito dell’innamoramento è diventato come dicono, tormento solipsistico, porno-improduttivo, perlopiù scritto nelle chat?

Cominciamo dai giovani.

Situationship

Ragazzo, dove ti collochi sentimentalmente? In una situationship.  Bisogna spiegare cos’è. E’  più facile per esclusioni. Nel passato esistevano: a) la persona disperatamente sola oppure b) felicemente in compagnia. Entrambi estremi difficili da raggiungere, più spesso capitava uno (generico maschile, inteso neutro) che ti voleva a saltello. Sì e no erano la stessa cosa. Chiamava e poi spariva, eravate più che amici e meno che fidanzati. Era una relazione immaginaria, si sarebbe scoperto in seguito. Uno dei due ci teneva tanto, così provava a coltivare quel minimo interesse per cavarne qualcosa di più convinto. 

La posizione delle amiche era: no! Perché si trattava di uno stronzo, avresti solo perso tempo. E così infatti si confermava, l’amore non sarebbe mai stato reciproco. Dopo lutti infiniti, ci si rassegnava: me lo sono inventato. Che scema. Le cose sono molto cambiate da quegli anni Novanta. Situationship! Intanto si chiamano le cose con il loro nome, poi vediamo.
Situationship è la condizione di essere considerati poco e niente e soprattutto quando garba all’altro. Situationship vuol dire che l’amore non corrisposto ha traslocato nel condominio delle parole virtuose. Dal torto alla ragione. Un compromesso accettabile. A metà tra “sto con qualcuno” e “sto da solo”. Se pare una fesseria, è perché lo è. Per questo bisogna usare l’italiano, perché  è lingua prosaica e tignosa, cartina tornasole di fregature: situationship è il “tra noi due non c’è niente, però”. Privilegio a storico beneficio del maschio.

Essere esclusivi

In questo ventennio bisogna puntualizzare, come esigono le nuove abitudini di correttezza e precisione. Essere esclusivi vuol dire che uscite solo voi due. Il che sembrerebbe una conseguenza tacita e normale, amore ne prevede due, non mille. Amore non è amore se non contempla una pulsione un pochino proprietaria. Perché non è generoso l’amore: non “vai e sii felice” ma “tu devi essere felice, ma non vai da nessuna parte”.  Mi dispiace se suona male, ma lo dicono dai tempi dei greci.

Poliamore
Altra trovata estrema. Questa però è spassosa. La Treccani: s. m. Relazione amorosa consensuale caratterizzata dal fatto che ogni partner può avere contemporaneamente più rapporti d’amore. Come in un ritorno alle origini, si annuncia una nuova èra che porta con sé nuove forme di relazioni tra esseri umani fondate sulla soddisfazione istantanea dei desideri e liberate progressivamente dall’assillo della riproduzione: si profila il matrimonio contrattualmente provvisorio, in cui la durata del rapporto sarà fissata in anticipo dalla coppia; il poliamore, in cui ciascuno potrà avere in tutta trasparenza più amori allo stesso tempo; la polifedeltà, in cui ciascuno sarà fedele a diversi membri di un gruppo dalle sessualità molteplici. (Jacques Attali, Repubblica, 25 novembre 2008, prima pagina).

Dice che esiste ed è plausibile questo tipo di relazione: più siamo, più belli pariamo. Ma non è questione di volgare ammucchiata, più di linee guida condivise. La finalità è una sola: non ammosciarsi troppo nella relazione stabile. Di tutte le imprese disperate della modernità, questa è sicuramente la più penosa. Siamo tutti applicati a trovare il modo di rendere eccitante il matrimonio. Eccitante. Il matrimonio.
Ha dedicato al poliamore una bella copertina il New York Magazine.
Se vivi a New York, è molto probabile che ti sia ritrovato di recente a chiacchierare con un collega o a origliare quello che dicono al tavolo accanto in un ristorante e abbia sentito frasi come questa, riguardo coppie aperte “Adesso sono molto più felice”. Oppure “Il partner del mio partner fa schifo”. La non monogamia etica non è una novità (“The Ethical Slut” è uscito nel 1997), e non è esattamente una cosa diffusa, ma non è più nemmeno tanto rara.

Come preferiamo definirla, questa relazione aperta, per non sembrare amici dei reazionari brutti? Sono corna reciproche, pianificate, volontarie e autorizzate. Corna oneste. Siccome tutti sanno, non dovrebbe fare male. Miracolo progressista! Si sarà trovata la soluzione a tutto?

Non ho risposte però ho un  fatterello strepitoso, realmente accaduto. Una poliamorosa viveva in casa con altri due poliamorosi, erano quindi due femmine e un maschio. Due dei poliamorosi avevano una figlia tanto intelligente, che frequentava la prima elementare. Il terzo giorno di scuola assegnano un disegno in classe a tutti i bambini, lo stesso compitino uguale dal dopoguerra: la mia famiglia. Di solito “la mia famiglia” prevede due persone, un cane, una casetta coi gerani al balcone, tre uccelli in cielo e un sole giallo.
La creatura nel disegno ci aveva messo tutti e tre i poliamorosi che si tenevano per mano, e lei in mezzo. Interrogata dalla maestra, la bambina racconta. 
“Chi è quest’altra signora nel disegno? La nonna? La baby sitter?”.
La bambina cerca di spiegare come le viene meglio che non è la nonna, perché la nonna è di Cuneo e non la vede mai, e non ha una baby sitter. Il poliamore finì con gli assistenti sociali che suonarono al citofono e il preventivo dell’avvocato. 

Friends with benefit
E’ quando la situationship (v. sopra) si fa senza mutande. Uno si piglia i benefit e l’altro resta a sospirare. Sostengono che va bene. Si può fare. Solo che il beneficato, prevalentemente maschio, un bel giorno si fidanza con un’altra. Non deve nemmeno spiegare perché – ehi, eravamo amici, ricordi? – La signorina nuova è una che pretende di fargli invece conoscere i genitori, non lassista, il benefit è escluso senza ritorno di partita. 
Quella del benefit – che capolavoro di devozione femminile – si sente presa un po’ in giro, sorride con tutta l’indifferenza che le riesce. Siamo moderni, no? Modernissimi, solo che la delusione sempre quella è, analogica, una vecchia piovra del secolo scorso.
Friends with benefit. C’è da interrogarsi per bene su quant’è grosso il canestro delle cose storte che ci stiamo affannando a definire normali. E soprattutto: perché.

Incomunicabilità, l’analisi del testo

La più grande iattura sentimentale che si sia mai abbattuta sull’umanità. Gli amori per messaggio. Queste truffe con l’alfabeto, come se la gente fosse davvero come scrive. Di colpo, tutti bisogna essere esperti di analisi del testo. Tra i piccoli dolori di questo secolo, c’è l’ok in chat, che merita un capitolo tutto suo.
Un dramma privato inedito. Appena ti scrivono ok devi abbandonare la nave. E’ la sigla in codice per dire: non mi interessi, scocciatore. E’ la risposta al gusto doccia fredda. L’ammazzasperanze adesso ha un nome: ok.

Ok. 
“Ok” è la mancanza di entusiasmo. 
“Ok” è l’entusiasmo al contrario. 
“Ok” è per non lasciare il rigo bianco. 
“Ok” è educazione.  
“Ok” è fastidio che non osa dire il suo nome. 
“Ok” è la parola che usi quando tutto è controvoglia. 
“Ok” è intenzionale eccesso di brevità. 


Come può una cosa così piccola generare tante frustrazioni? Eppure, eppure.  Perché cos’è un ok, se non un modo anaffettivo di dirti: t’accontento per toglierti di torno, non ho tempo per te, hai veramente rotto. 

Il divorzio

Mi dice l’americana che vive a Roma: “Ho tanti amici italiani sposati, dicono che sono infelici però non divorziano mai. Al mio paese una coppia che non è felice chiude l’esperienza e cerca di essere felice con un nuovo matrimonio”. Da noi meglio uniti e scontenti. Leggo che in Italia le coppie che divorziano in un anno sono soltanto 13.000 contro i quasi 150.000 divorzi inglesi, gli oltre 100.000 francesi, il milione e 200.000 degli Stati Uniti, i 170.000 della piccola Danimarca. E mi chiedo se questa nostra refrattarietà dipende solo dal fatto che viviamo ancora nell’infanzia del divorzio (appena 12 anni dalla sua promulgazione) e che una mentalità è più difficile da cambiare di un articolo del codice. 
La troppo recente istituzione del divorzio e tutte le sue complicazioni burocratiche basterebbero dunque a giustificare la sua scarsa diffusione. Ci sono poi i figli, ci sono le abitudini, la topografia domestica, quell’orizzonte da quella finestra, ci si separa anche da una fetta di amici, da una parte della propria vita. Si aggiunga che se la separazione è voluta dal marito, la cosa è accettata, grande solidarietà con lei ma anche molta comprensione per lui. Ma se è la moglie a voler andare in tribunale, è condannata a un’ombra di generale riprovazione. Soprattutto la provincia non perdona. Mi dice Luisa F: “Se avessi regolarizzato la mia posizione di separata con una nuova relazione stabile, sarei stata tollerata, ma la scelta di vivere sola rappresenta qualcosa di anomalo, insidioso, mi sento un’appestata”. Aggiunge Patrizia N: “Tanti attraversano la strada per non salutarmi, sono il disonore del paese, ho usato sovvertire una tradizione per cui erano gli uomini a sfasciare le famiglie”.
Era “Lei m’insegna”, una raccolta di saggi di cronaca e costume di Luca Goldoni, pubblicata nel 1985. Ne abbiamo fatta di strada, anche col Vaticano alle calcagna. Oggi quasi un matrimonio su due si sfascia, son capaci di lasciarsi senza paura pure i paesani, le femmine e i tradizionalisti.
Le coppie si scollano presto. Tre o quattro anni. A scuola i figli degli ancora sposati si guardano tra loro e si chiedono dove hanno sbagliato, visto che i compagni – figli di separati – hanno vizi stupendi, doppie case, triple dosi di regali, vacanze sulla neve e a Disneyland Paris.  
Si registrano noie da cinquantenni tra coppie fresche. “Forse non ci amiamo più come prima”, un prima indefinito, da film. L’amore che diventa un’altra cosa, una cura più quieta, è intollerabile in questo millennio? Caricare la lavastoviglie è così antieccitante? E’ mortale? Ecco la domanda.

La parte consistente dell’umanità propende per il sì: neanche un minuto di noncuranza, bisogna sempre essere innamorati al massimo delle possibilità.
Ecco spiegati i numeri dei divorzi. Manco le corna, però, sono più quelle di una volta, dei tempi di Goldoni (cioè assegni postdatati matrimoniali). Secondo la Cassazione più recente, sono finiti i tempi dei mantenimenti. Quando divorzio voleva dire arricchirsi. Ci si lascia, oggi, perlopiù senza grosse entrate compensative. 

Sesso

E’ finito, si vede solo in cartolina. Senza accorgercene siamo diventati letteratura scientifica. C’è un bel saggio di Luigi Zoja, “Il declino del desiderio.  Perché il mondo sta rinunciando al sesso”.
Nel XXI secolo disponiamo di studi secondo cui, dopo lunghe fasi di crescita economica, le stesse popolazioni occidentali hanno manifestato più segni di disagio che al loro inizio. La psicopatologia segnala nuovi tipi di sofferenze e una loro rapida estensione tra gli adolescenti, facendo temere una complessiva “società malata” quando saranno adulti.
Un aspetto particolare del problema sta nel calo dei rapporti erotici tradizionali. Questa diminuzione è stata constatata tra tutte le giovani generazioni dei principali paesi che le classificano.
Non ce ne importa più niente.
In contrasto con l’essenza del desiderio, quanto più a esso si aprono possibilità, tanto più sembra che l’uomo si chiuda spaventato. Per chi ne esamina le tendenze di lungo periodo, l’essere umano segue delle traiettorie sconosciute e mai studiate prima. Dicendo essere umano intendiamo soprattutto la sua psicologia e non dovremmo dimenticare che una buona percentuale dell’attività mentale è inconscia. una sua parte, meno cosciente di quanto si vorrebbe, è quella che ci siamo impegnati a descrivere: la sessualità. La cui pratica ha continuato a crescere dai tempi di Freud, quando diventò oggetto di studio, ma ora ci sorprende con una caduta. In sostanza il suo percorso comincia a delineare il profilo di una cupola. Altrettanto sorprendente il fatto che un evento così epocale finora non abbia suscitato interesse. Sul tramonto della sessualità quantomeno in occidente esistono sì pubblicazioni e dibattiti ma certamente la loro quantità non rappresenta l’uno per cento neppure l’uno per mille della risposta che aveva ottenuto Freud dando alla sessualità un ruolo centrale.

Siamo al plateau, si scollina verso l’anedonia, le mattine di appagamento massimo sono quelle con le otto ore di sonno filato.

Il narcisista

Campione delle nevrosi moderne, la miglior performance del millennio è la sua: il narcisista. Ormai è medicalizzato, è su  tutti i giornali, i post Instagram, libri, ovunque.  Prendiamolo sul serio. Elenco di criteri diagnostici. Alle analisi del sangue dovranno risultare cinque delle caratteristiche che seguono. Allorché presenti, è narcisismo sicuro:  
- una esagerata percezione della propria importanza; 
- la convinzione di appartenere alla categoria di esseri speciali e di poter essere capito/a solo da suoi simili altrettanto speciali; 
- desiderio di essere associato a persone di status elevato; 
- esigenza di ammirazione costante: si è convinto che gli altri esistano per soddisfare le sue aspettative;
- gli altri sono considerati solo un mezzo per raggiungere propri obiettivi; 
- assenza di reazioni d’empatia: i sentimenti altrui sono fatti altrui; 
- nelle relazioni la modalità è utilitaristica: scarso impegno personale, esige attenzioni che non si sogna manco lontanamente di dare. 

Nel 2010 si pensò di escluderlo dal Manuale dei Disturbi – è un’epoca in cui narcisisti siamo tutti! Narcisismo è una deviazione di carattere collettiva! Si disse. Poi ci fu un ripensamento e qualche tempo dopo il narcisismo prese la sua rivincita: era di nuovo dentro più che mai. Saranno un paio d’anni che il narcisista è un nemico con autorità, prima non esisteva questa paura. Eravamo poco attrezzati alle diagnosi, così si liquidava rapidamente: è solo uno che se ne frega di te.

“C’è un solo punto di vista che mette d’accordo tutti gli psicoanalisti che, da Freud in poi, hanno cercato di spiegare cosa può aver visto Narciso nel suo riflesso: che un punto di vista non basta. La varietà di pazienti riconducibile all’area dei disturbi narcisistici è così ampia da richiedere diverse prospettive teoriche e quindi vari approcci terapeutici”.


Lingiardi spiega perfettamente, in “Arcipelago N”, il grande equivoco. Proprio che non si sa chi sia, il narcisista. E soprattutto non si sa che fare. Il narcisismo ce l’hai e te lo tieni. O meglio: se lo tengono quelli che hanno la sfortuna di capitarci intorno, al narcisista. Che è asintomatico e per niente disposto a cambiare. E perché dovrebbe? Vi dirò, che bella malattia non sentire il dolore del mondo e pensare solo a sé. Dimmi dammi fammi. E’ la vita com’era a due anni, prepotente, senza cautele, senza rinunce, magnifica.

Di ritorno da un funerale, un collega mi confessa di non aver pensato neppure un secondo all’amica che aveva perso la sorella. “Eppure le voglio bene”, dice, “siamo cresciuti insieme. Ma non potevo fare a meno di pensare a me, alle mie cose, a come sta andando il mio lavoro, che, devo dirtelo, sta andando proprio bene. E’ possibile che mi chiamino per un incarico al ministero”. L’incapacità di spostare l’attenzione da sé per rivolgerla a un altro è uno dei tratti più vistosi di certi narcisisti. Si può chiamare in vari modi. Uno di questi è egocentrismo, cioè essere intrappolati nel proprio punto di vista perdendo così alcune dimensioni necessarie alla relazione, come la curiosità e l’empatia. L’egocentrismo da solo non basta per trasformare un aspetto della personalità in un suo disturbo; ma se aggiungiamo una costante ricerca di ammirazione, l’aspettativa di un trattamento speciale, un senso esagerato della propria importanza e la tendenza a sfruttare gli altri, la diagnosi di personalità narcisistica è probabile.

(Lingiardi, “Arcipelago N. Variazioni sul narcisismo”)


C’è da aggiungere – anche in necessaria autocritica – che essere narcisista è questione di circostanze. Nessuno è salvo. Se sei disinteressato, finirai sempre crudele a tua insaputa.
Perché quando trovi il modo di approfittare di una situazione di vantaggio un po’ a discapito degli altri, quant’è la forza che serve per tirarti indietro? 
Ecco, ora, il narcisista chi è?
Il problema è sempre lo stesso: Io, io, io. La malattia che abbiamo un po’ tutti. Non è aristocrazia del male, non sono sempre gli altri. Non siamo contenti finché non diciamo a tutti come devono vivere e quanto devono stare attenti a non ferirci. Sarebbe un mondo favoloso, pagherei per viverci.

Red Flag

Altra brillante idea, che dovrebbe contrastare il narcisista (v. sopra) e renderlo inoffensivo, è il sistema di red flag. Ovvero sono spesso tipizzati i comportamenti rischiosi. Detti anche: tossici. S’è creata una tendenza generale e maniacale di supertutela della psiche coi massimi mezzi. Ottimo, peccato che non serva a niente.

Nessuno ammette che bisogna essere gente con tutti i bulloni a posto per innamorarsi solo dei compatibili, dei bravi. Servono troppe casualità fortunate: genitori al massimo del potenziale, amicizie indovinate, vita urbana con esperienze facili – dove basta cambiare quartiere per cambiare amici. 
Lascio a Flaiano. Che spiega perché molte di noi hanno ceduto a delinquenti conclamati, e in generale perché il mondo va alla rovescia.

Indulgenza per la gente che si comporta male. Chi non suscita né simpatia né compassione è l’uomo medio, onesto e senza grandi inclinazioni al male. L’uomo che lavora per tirare avanti, che mette su famiglia e la mantiene. L’uomo medio è antipatico. (Io sono antipatico. Mi si sopporta). Per diventare simpatico bisogna comportarsi da canaglia. È l’equivoco erotico che continua. Il malvagio dà quelle garanzie sessuali che la persona per bene non dà. Chi si comporta rettamente ammette la sua “ordinaria” attività sessuale e non interessa. 


La terapia di coppia

Ho letto in un articolo del Guardian che ora le coppie vanno in terapia prima del matrimonio e pagano il dottore per sentirsi dire che l’anima gemella in fondo non esiste. Non c’è altro da aggiungere, passiamo alla storia come la generazione flaccida e non parliamone più.
Serve il dottore per la scarsa autostima, il dottore se mi lasciano, il dottore se non riesco a farmi piacere mio marito. Serve il dottore se da giovane prendevo tre in greco, serve il dottore se per prendere otto in greco uscivo poco. Serve il dottore se tuo padre era anaffettivo e per colpa sua ti fai trattare da sciacquina. Serve il dottore se papà era troppo bravo e quindi per colpa sua non trovi un altro che ti faccia il maggiordomo. Serve il dottore se su Instagram mi dicono che serve il dottore. Ah, la vita, quant’è difficile. C’è un dottore in sala?

Incontrare qualcuno

Devo chiudere questa rassegna con una affermazione positiva. Devo trovare qualcosa che travolga tutte le considerazioni tetre di questa pagina, è importante, si deve sperare. La parte più difficile degli amori, di ogni amore, è trovarlo. E più di tutti lo sappiamo noi, sfortunelli cresciuti nelle province minuscole e che erano giovani molti anni fa.  Uscivi e incontravi i soliti quattro gatti, sempre gli stessi, tornavi a casa più afflitto di prima. Ora puoi metterti online come un HR e stare in chat con tutti i candidati come ai colloqui di lavoro. Puoi usare foto venute bene mentre sei un cencio sul divano. Su quaranta uno buono uscirà. Solo che tu sei di Avellino e lui è di Bordighera, ma è sempre meglio di niente.

Scriveva Calvino nel 1961, su Tempi moderni: Quindici anni fa prevedevamo tutto, tranne una cosa: che il mondo sarebbe entrato in una fase di “belle époque”. Adesso ci siamo dentro in pieno. C’è il boom economico, un’aria di cuccagna, ognuno bada ai suoi interessi. Non abbiamo nessun mezzo per prevedere se questo stato d’incerto equilibrio e prosperità e ottimismo durerà ancora poche ore, o qualche mese, o alcuni lustri, o cinquant’anni e più. [Il disastro] potrebb’essere tutti i momenti, anche domani. Non sappiamo quale immagine avrà: se quella della guerra atomica (ma forse le cose troppo previste e paventate non succedono) o un’altra. Forse prenderà la forma di qualcuno dei vecchi mostri mai estinti, forse forme nuove, che non sapremo riconoscere. Quello che sappiamo è che la nostra condizione di cittadini della “belle époque” dobbiamo viverla come fosse temporanea, sia pur muovendoci in essa con perfetto agio e naturalezza.

Noi intanto teniamoci l’amore malato, le nevrosi online, le red flag, teniamoci pure il narcisista. Vuol dire che tutto il resto va bene. Il peggio è sempre possibile, sì, ma non è oggi.

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