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Le griglie del porno sul web ricordano tanto il nostro manicomio identitario

Guido Vitiello

In YouPorn c'è una classificazione quasi pedantesca di mille micropiaceri identitari. Altro che zona rivoluzionaria

Che rapporto c’è, ammesso che un rapporto ci sia, tra quella che il politologo Yascha Mounk ha battezzato “The Identity Trap” (è il titolo del suo nuovo libro pubblicato un paio di mesi fa da Allen Lane), la trappola identitaria in cui si vanno infilando irresponsabilmente una dopo l’altra le nostre società, e i siti pornografici di video sharing come YouPorn?

La domanda suonerà stravagante, ma sono stato costretto a pormela dopo aver letto l’ultimo accattivante saggio di Alberto Abruzzese, “Delle cose che non si sanno si deve dire” (Edizioni Estemporanee). Tutta la prima parte è dedicata appunto a YouPorn, in cui Abruzzese – con gesto mentale tipico della sua matrice post-operaista, del resto costantemente rivendicata – vede una delle “zone che annunciano la negazione dell’umanesimo e dei suoi valori”, perfino di quei valori residuali che rimanevano incrostati alla pornografia come comparto dell’industria culturale. Il porno lo fanno gli utenti, ed è spogliato di ogni bellezza, di ogni utopia, di ogni misura.

Confesso, ho un’istintiva simpatia per l’immagine di questo porno-spontaneismo di una razza ben più rude e pagana dell’operaio-massa di Mario Tronti, nonché altrettanto insensibile alle consolazioni ascetiche della cultura. Ma la mia simpatia si ferma sulla soglia, davanti a quel bivio – “Enter or Leave” – che aspetta chiunque approdi al sito di YouPorn. La fantascienza mi aiuterà a spiegare il perché. Nel 1968 – più o meno quando Einaudi pubblicava “Operai e capitale” di Tronti – comparve su un’effimera rivistina di fantascienza, “Poker d’Assi”, un racconto breve e geniale a firma di un certo Jean Beaux (probabile pseudonimo di un autore italiano) dal titolo “Una bella serata per fare la rivoluzione”. Descriveva una società del futuro in cui ogni tendenza sessuale, ogni desiderio, ogni parafilia era non solo legalizzata, ma inquadrata in una sorta di gruppo sindacale. C’era il circolo dei voyeurs, il circolo dei sadici, il circolo dei satiri, e così via. Del finale del racconto vi dirò dopo. Ma ciò che si apre al visitatore di YouPorn che ha cliccato su “Enter” non mi sembra, come suggerisce Abruzzese, un carnaio indisciplinato; mi sembra piuttosto qualcosa di simile alla società del racconto di Beaux, una classificazione quasi pedantesca di mille micropiaceri identitari. Altro che zona rivoluzionaria: come i manicomi di Foucault (bestia nera di Tronti, ma non dei suoi molti epigoni), YouPorn è un microcosmo che riproduce minuziosamente l’ordine simbolico della società che lo ha creato, un ordine ossessionato dalla combinazione delle solite variabili (gender, orientation, race, ethnicity eccetera). Le sue griglie algoritmiche ricordano troppo da vicino le sbarre del manicomio identitario in cui ci stiamo recludendo negli anni del nostro volontario Grand Renfermement

E non è l’unica zona in cui questo rispecchiamento si rende così visibile. Citerò un’altra vecchia storia di fantascienza, stavolta un romanzo di Philip K. Dick, “Follia per sette clan”. La società umana che abita la luna Alfa III L2 è divisa in base non già alle inclinazioni sessuali, ma alle malattie mentali: ci sono i Para (paranoici), gli Skiz (schizofrenici), gli Os-Com (ossessivo-compulsivi) e così via. Anche nel romanzo di Dick, scritto nel 1967 a partire da un racconto del decennio precedente, c’era abbondanza di spirito profetico. Qui ne distillerò solo una goccia. Una grande storica della psicoanalisi, Elisabeth Roudinesco, ha pubblicato due anni fa un libro (“Soi-même comme un roi. Essai sur les dérives identitaires”, Seuil) che in alcune pagine molto intelligenti esamina l’ascesa della identity politics da un punto di vista decisamente insolito: le successive redazioni del DSM, il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, definito correntemente la “Bibbia della psichiatria”. Se le prime edizioni, nel 1952 e nel 1968, si fondavano ancora sulle nozioni della psicoanalisi e della psichiatria classica, nelle riscritture successive, a partire da quella che occupò tutti gli anni Settanta, le loro categorie “dinamiche” cedettero il passo a un approccio rigidamente descrittivo fondato sulla classificazione puntuale di tipologie di comportamento. Ne nacque, dice Roudinesco, un buffo gergo degno dei medici di Molière che permise di far entrare nel Manuale centinaia di malattie immaginarie. Ogni comportamento riceveva la sua etichetta tassonomica, che poteva essere all’occasione esibita come un distintivo. La tenia identitaria cominciava a riprodursi. E cominciava, insieme, a politicizzarsi. 

Ci si domanderà come mai una parte così grande della sinistra antagonista abbia scelto di chiudersi a chiave nelle stesse prigioni identitarie che il potere – pressoché ogni potere – moltiplica ovunque nel nostro mondo. Un foucaultiano ortodosso direbbe forse che dominanti e dominati condividono una stessa episteme, ma è un modo di pensare così lontano dal mio che quasi fatico a fargli il verso. Piuttosto, trovo utile tornare al raccontino di Jean Beaux del 1968, nel quale un gruppo di ribelli cerca di distruggere quella società alienata che ha compartimentato l’energia magmatica dell’erotismo in innumerevoli sigle para-sindacali. Ebbene, alla fine della storia arrivano i poliziotti. Lo annuncia uno dei ribelli, che però si affretta a rassicurare i compagni: “Ma non per arrestarci. Per portare una lettera ufficiale. Da oggi, con decreto-legge 1234, viene istituito il Circolo dei Rivoluzionari. Siamo considerati una deviazione sessuale e ci hanno legalizzati”.

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