Dopo il 25 novembre

L'ultima costola dei padri: tutti siamo figli di qualcuno

Maurizio Crippa

La violenza sulle donne e il patriarcato. Su un cartello c’era scritto: “Non sono la costola di nessuno”. Ma tutti siamo figli, anche di madri. E per questo sono esistiti, e possono esistere, rapporti senza possesso

In una fotografia delle manifestazioni per Giulia Cecchettin, una giovane donna alzava un cartello: “Non sono la costola di nessuno”. La parte per il tutto, più radicale seppure forse meno dirompente di “l’utero è mio e lo gestisco io”. Ben trovato, in ogni caso, anche se in fatto di rivendicazione dell’alterità rimane inarrivabile il geniale “una donna senza un uomo è come un pesce senza bicicletta” che comparve, di attribuzione incerta, su un muro dell’Università del Wisconsin nel 1969. Se la giovane donna che rivendica di non essere la costola di nessuno abbia approfondito l’antropologia biblica o se l’abbia orecchiata soltanto, acciuffata nella rete delle parole, non fa differenza. Il suo cartello chiarisce che il punto cruciale del discorso pubblico – spesso molto sgangherato – di messa in stato d’accusa del patriarcato è quello di una auto-nomia e di una opposizione inconciliabile rispetto a qualsiasi legame col genere maschile. (Il genere maschile è quello che uccide le donne e sembrerebbe di capire, dal discorso pubblico, che lo faccia in quanto genere). Non essere costola del patriarcato significa non essere costola, persona generata, di nessun padre. Ma tutte e tutti siamo generati da qualcuno, da un padre e da una madre. Siamo dunque costola anche di madri. Ovviamente, come nel caso di avere un padre, anche avere una madre non significa che vada tutto bene: ma questo va da sé.

Non essere costola di nessun patriarca non dovrebbe significare, necessariamente, non essere costola di un padre. Per spiegare la differenza dal punto di vista dell’antropologia biblica evocata da quel cartello – ma con un’intuizione artistica, che dunque va ben oltre la Bibbia – basterebbe un piccolo capolavoro, una formella di terracotta del giovane Donatello conservata al Museo del Duomo di Firenze, “La creazione di Eva”. L’immagine ottagonale è quasi per intero invasa da un tenero e potente abbraccio da parte del Dio Padre. Non è un estrarre da qualcuno, è un originario abbracciare che dà la vita. Ma Donatello è Donatello. Il cartello della giovane donna racconta invece il rifiuto di essere figli, di un patriarca e anche di un padre e – perché no, seguendo la logica – anche di una madre. E se per il primo rifiuto, di un possesso maligno, vale in pieno lo slogan femminista e la ribellione, non avere più padri è invece qualcosa che supera di slancio lo stesso odio del patriarcato. Il male non è il patriarcato, è il padre. C’è in questo l’aspirazione, magari ancora inconscia, a non essere più figli e di conseguenza a non essere più padri (né madri). In futuro ci saranno forse macchine riproduttive cui affidarsi (è già tema di dibattito etico e ricerca tecnologica, lo sappiamo). Ma come dicevano i Nomadi, noi non ci saremo. 

Tutti i padri sono buoni e lo sono sempre stati? Ovvio che no. Sarebbe grossolano affermarlo come negarlo. Non è trascurabile che nel maggior romanzo “cattolico” della letteratura, come ha notato Luca Doninelli, non ci siano padri. Anzi uno c’è, ma è un patriarca brutale che spinge all’abisso la sua stessa figlia, Marianna-Virgina o Gertrude. L’altro “padre” del romanzo, che ri-genera alla vita, è invece un padre putativo: dunque né biologico né patriarca. La contraddizione è evidente. E a questo punto della questione, a questo punto che arriva al fondo della questione, la contraddizione vale anche per le possibili madri. La matriarcale Donna Prassede era molto incline a fare del bene: il “che purtroppo può anche guastare”.

Non essere madri e non essere padri. Può essere solo una impressione, ma c’è qualcosa che accomuna il dibattito corrente e corrivo sul patriarcato, che le vicende e le manifestazioni di questi giorni hanno arroventato nella pubblica condanna di una figura ipostatizzata, “il maschio-patriarca” e un più radicale volersi liberare del padre. Di ogni costola. Donne che non vogliono essere la costola di uomini, uomini che non vogliono avere padri avendo scoperto (un po’ così, un tanto al chilo diciamo) che erano patriarchi. O più precisamente uomini che, accorgendosi di non avere più costole da prestare e dunque nessuna corporeità altrui da possedere, si sentono smarriti, indeboliti, inferociti (Scaraffia o Aspesi). È qualcosa che va oltre i modi vendicativi del #femalerage e della (spesso grottesca, anche per come viene espressa) auto-accusa dei maschi. E anche delle speculari auto-assoluzione con rifiuto di ogni responsabilità da parte di altri maschi. L’impressione, nel caso del “siamo tutti colpevoli”, è che il tasso di ipocrisia sia superiore. Anche la variante della “colpa collettiva”, che gli uomini dovrebbero riconoscere, argomentata da Mattia Feltri che la riprende da Hannah Arendt, per una volta non convince appieno.

È tutto non risolutivo, rispetto all’unica domanda che valga la vita: come se ne esce? Se ne esce con le pene inasprite? Dubbia efficacia. Con l’educazione alla affettività nelle scuola? Ma chi la definisce, e chi la valuta? Con una profilazione criminale (o criminogena?) preventiva alla “Minority report”? Dio ne scampi. Lasciando in sospeso e ad altri la soluzione del dibattito, mi permetto una pura ipotesi, un punto di vista: forse una strada per uscirne, e persino per riaggiustare le costole rotte, è l’educazione intesa non come i corsi per la patente a punti ma come il ripristino dell’avere, e riconoscere, dei padri. Che non sono solo e sempre patriarchi. Parlo per me, e rimando preventivamente al mittente le chiamate in correo collettivo, francamente ridicole, che abbiamo letto fino alla noia. E anche le assoluzioni facili.

Se non ho mai fatto violenza a una donna, o esercitato vessazioni patriarcali e tutto il resto dei comportamenti in elenco; se non l’ha mai fatto mio padre con mia madre, né mio nonno, non è per un caso né per una minimizzazione distratta: è propriamente un fatto. Che deriva dall’avere avuto un padre, un nonno, che a loro volta hanno avuto padri e nonni che quel tipo di sopruso non hanno praticato. Praticando invece un rispetto, una moderazione, un innato rifiuto del possesso che sono frutti di una storia e di una cultura e antropologia secolare. Imperfetta, manchevole, contraddetta, in certi contesti persino minoritaria, eppure esistente. Posso affermare, potrei farlo davanti a un tribunale, che nella mia vita adulta ho conosciuto almeno duecento o trecento uomini adulti con cui ho avuto un rapporto di conoscenza bastevolmente approfondita, che non hanno mai fatto violenze alle donne. Un dato statistico piccolo, ma non facilmente aggirabile (moltiplicatelo per ognuno dei miei due o trecento), da cui partire. C’è, nella nostra civiltà e persino nel suo passato meno piacevole, più povero e costretto, anche una “maschilità” che questo modo di essere l’ha praticato, o lo ha avuto almeno in mente come riferimento ideale. Non per rispetto di una dottrina religiosa, hanno vissuto così anche uomini senza odore di candele. Oppure vogliamo davvero sostenere che il marito-padrone che mena Cortellesi rappresenti tutti i mariti del dopoguerra, di un’Italia di cui il neorealismo (fatto da uomini!) ha nascosto il patriarcato? Anche il marito di “Ladri di biciclette” picchiava la moglie? E tutti i mariti e tutti i padri? Ci sono uomini che non hanno imposto possessi. Si dirà: ci sono anche le colpe che non conosciamo né riconosciamo. Ammoniva però Franco Basaglia che “visto da vicino nessuno è normale”, e ne faceva discendere che non tutte le non-normalità sono patologie o indizi criminali meritevoli di internamento. Esiste, nei rapporti tra persone e nei rapporti sociali, un’ampia zona mista dove quello che in certi casi può portare a violenza viene contenuto al di sotto della soglia psicologica e giuridica del “distruggi tutto”. Si può avere un’invidia tremenda per l’erba del vicino, ma non ammazzarlo mai come Rosa e Olindo. La domanda è come fare. E le risposte possono essere differenti, le mie considerazioni non pretendono certo assolutezze. Ma si potrebbe forse partire dal riconoscimento che possa esistere, tentativamente, una civiltà di padri che sono riusciti a non essere patriarchi e che con le donne stati co-autori della vita di figli cresciuti come uomini non femminicidari. Chi si azzardi a ritenere che il male o la violenza non possa esplodere in lui, nei suoi figli o nei suoi amici, so prenderebbe un brutto rischio nei confronti del destino. Ma anche chi lo voglia negare per principio. Non è nata adesso, coi violenti delitti sulle donne che ogni giorno accadono, la riflessione sugli effetti di un mondo senza più padri ma soltanto con padroni. Cioè un mondo in cui nessuno sappia né volgia trasmettere alle nuove generazioni un diverso modo di essere.

È una storia lunga. Nel 1963 uscì un libro che ebbe un ruolo importante all’epoca, si intitola “Verso una società senza padre”, dello psicoanalista tedesco Alexander Mitscherlich. Che indagando con buon anticipo i sintomi della ribellione “antiautoritaria” che avrebbe a tutti i livelli condizionato i decenni a venire, si interrogava: “Quale aspetto assumerà una società che non è retta da un padre mitico e dai suoi rappresentanti terreni? Quale aspetto assumerà una società senza padri? Come ritrovare l’autorevolezza?”. Intuiva che una società senza più padri non sarebbe stata per forza più pacificata e libera, e indicava la necessità di percorsi educativi che riuscissero a generare nuove forme di autorevolezza. Ha detto il filosofo Umberto Galimberti, a proposito di  Filippo Turetta: “Kant diceva che il bene e il male potremmo anche non definirli, perché ciascuno li sente naturalmente da sé. Non è più vero, oggi i ragazzi non sentono la differenza tra il bene e il male”. Chissà se è davvero così. Forse nessuno, non solo il padre biologico ma la comunità umana in cui ha vissuto, gli ha trasmesso per osmosi, per verifica imitativa, la capacità di distinguere.

Un punto di svolta – non l’unico, per carità, ma personalmente lo ritengo essenziale – è avere questo coraggio, più grande del facile auto accusarsi per potersi sedere nuovamente dalla parte del giusto: accettare il rischio di togliersi una costola, di generare qualcuno che possa riconoscere che vivere non è “possedere”. Intendeva questo, anno 1968, Paolo VI quando indicò come cruciale di un’intera epoca a venire “il gravissimo dovere di trasmettere la vita umana”. Molto di più che una questione di pillole. Un enorme rischio e decisivo.

Charles Péguy la scomparsa dei padri l’aveva già intuita un secolo fa. Quando scriveva cose che nessuno, né prima né dopo, aveva scritto sul “gravissimo dovere” di essere padri: “C’è un solo avventuriero al mondo, e lo si vede soprattutto nel mondo moderno: è il padre di famiglia. Solo il padre di famiglia è letteralmente coinvolto nel mondo. Perché gli altri, al maximum, vi sono coinvolti solo con la testa, che non è niente. Lui invece è coinvolto con tutte le sue membra. Niente di quello che succede, niente di storico è, per i padri, indifferente. Soffrono di tutto. Chi non ha mai avuto un bambino malato non sa  cosa sia la malattia. Gli altri scantonano sempre. Il padre di famiglia solo è condannato a non riuscire affatto. Non può mai scantonare”. Non è necessario pensare al padre di Filippo Turetta, per intuire la disperazione di avere accettato quel ruolo di “avventuriero”, e non esserci riuscito affatto. Non serve essere il padre di quel disgraziato (un giovane che ha causato ed è ora colpito a sua volta dalla disgrazia). E’ un’esperienza da cui nessun padre può dirsi immune. Sarà per questo che non si vuole più essere padri, ma neppure madri?

Eppure l’unica uscita è esperire la possibilità di generare figli che possano imparare quel modo diverso, quell’essenza intima diversa. “A nessun costo noi sopportiamo che i nostri figli siano traditi a loro volta, e dagli stessi maestri e dagli stessi capi – scriveva Péguy. Un uomo, tra l’altro, che così profondamente amava e rispettava la libertà di sua moglie che, quando lui si convertì, e lei no, non le impose nulla, nemmeno di battezzare i figli –  Allora ci si rivolta, e i nostri capi lo sappiano bene, questa rivolta può essere singolarmente pericolosa, perché evidentemente è l’ultima, perché lo si sente bene, perché si sa bene che è l’ultima. E non essere serviti a niente si vuole che almeno serva a qualcosa”. Non essere serviti a niente è la constatazione che oggi molti uomini, soprattutto la generazione over cinquanta, fanno. Ma in fondo ammettere di essere (stati) violenti patriarchi è più facile che domandarsi cosa si dovrebbe trasmettere per osmosi ai propri figli.

Ma è proprio lì, dalle costole, che si può forse partire. Lasciandolo dire a Péguy: “Arriviamo qui a uno dei sentimenti più profondi dell’uomo, e a uno dei più singolari, e a uno dei più misteriosi; e a uno dei più dati; e, per conseguenza, a uno di quelli che la più bella immaginazione del mondo non inventerebbe. Voglio parlare di quella specie di vergogna, e non tanto di pudore e disperazione, e di questo spaventoso sentimento di responsabilità che c’è nella paternità”. Viene dalla costola di una antropologia profonda e antica, che ha potuto esistere e di cui nel mio piccolo posso dare testimonianza. Nasce, almeno per tentativo, come capacità imperfetta, dalla coscienza di essere nati dalla costola di qualcuno (non per forza un Dio, non è necessario). E dunque di non essere padroni esclusivi di sé, né delle proprie mogli o compagne né dei figli (quanti disastri da possesso dei figli nelle cronache). L’origine di tutto è invece un rispetto, una distanza mantenuta, una disponibilità alla realizzazione dell’altra persona. Se riuscite a non dire preventivamente “che palle” come le scrittrici femministe francesi, se non siete impossibilitati a capire il significato di parole svuotate da secoli di banalità e ora pure dai sinodi sulla teologia gender, la parola che riassume tutto questo è: verginità. Che non è affatto questione di illibatezze, nell’autentico pensiero biblico e cristiano, bensì indica un rapporto “verginale” con i corpi, le anime e tutte le cose. Un lasciare liberi, senza prevaricazione, perché ognuno è costola di un’altra costola. Non si possiede, non si fa violenza, al peggio se ne fa molta meno, e si capisce più facilmente l’errore, se si è padri (madri) in questo modo: “Allora si vuole riacciuffare, per un bisogno profondo di compensazione e senza dubbio di farsi perdonare, si diventa arditi, si diventa coraggiosi. E si farebbe tanto perché almeno questi bambini non siano infelici. Se quest’ultima battaglia sarà persa, tutto sarà dunque perso”. Lo scriveva Charles Péguy centodieci anni fa, il 27 aprile 1913. 

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  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"