Il ritratto

Un Mughini in più. L'uomo di cultura e il "Gf" non sono in contraddizione

Pierluigi Battista

Aneddoti, passioni e la storia personale del celebre giornalista che si sa prestare per tutti i ruoli possibili, dalla TV popolare ai più autorevoli libri pubblicati: di Giampiero ce n'è uno solo

Vorrei raccontare Giampiero Mughini, uno degli uomini più colti d’Italia che era sul punto di sbaragliare gli aitanti tatuati giovanotti e le balde tatuate giovanotte del “Grande fratello”. Uno dei connoisseur più raffinati che ha conquistato il popolo di una trasmissione bollata come l’essenza della serie B nel sussiegoso mondo della cultura che si vuole, immeritatamente, rispettabile. Io lo conoscevo bene. Io lo conosco bene. Mi ha insegnato la grandezza del design italiano. Mi ha insegnato a scrivere un articolo, puntiglioso e ossessivo com’è. Quando andai da lui per sottoporre il primo pezzo al suo giudizio non ne rimase in piedi quasi niente: né l’attacco, né una virgola, né un tempo verbale, né un aggettivo di troppo, né la chiusa. Per questo so che è sciocco pensare che esistano due Mughini in uno, uno della tv popolare e uno delle decine di libri pubblicati. Da Catania dove è nato a Roma dove vive, di Giampiero ce n’è solo uno.

Di Catania ama solo il bell’Antonio di Vitaliano Brancati e Pietro Anastasi. Ma anche se non lo ammetterà mai, ricorda sempre con una stretta al cuore il momento magico in cui a Catania ha fondato nel 1963 e diretto la rivista “Giovane critica”, accollandosi tutto il lavoro per dieci anni pieni: e le spese della carta, e le spedizioni postali, e le scelte grafiche, e le collaborazioni. Tutto. Ricorda il circolo culturale intestato a Giaime Pintor dove faceva arrivare i film che non avrebbero avuto ospitalità in una città chiusa e immobile. Una città da cui scappare, e infatti Giampiero scapperà appena possibile, senza una lira in tasca. Senza una fissa dimora prima di prender casa a Trinità dei Pellegrini, tre piani sopra quello che era stato l’ospedale da campo dove morì Goffredo Mameli. Senza un lavoro sicuro, con la lettera di dimissioni dal Manifesto firmata sei giorni dopo l’uscita del quotidiano, aprile 1971. Ma con un’estetica e uno stile tutti suoi, a cominciare dalla montatura di plastica bianca degli occhiali “alla Wertmüller” come si diceva (ora le montature sono di preferenza rosse o gialle). Ricorda gli amici con cui giocava a ping-pong (ma per lui ping-pong è volgare, tassativo chiamarlo “tennis tavolo”). Ricorda gli infiniti allenamenti senza la pedana elastica per l’esercizio a lui più congeniale: “il salto mortale indietro a corpo teso”. Era già allora puntuto e ostinato. Faceva amicizie destinate a disfarsi per il puntiglio ideologico di chi non poteva sopportare le sue deviazioni “revisioniste”. Racconta sempre di un suo compagno di spirito sessantottino che rispose così a una proposta di collaborazione: “Preferisco la pederastia passiva piuttosto che collaborare su una rivista su cui ha scritto Riccardo Lombardi” (o forse era Antonio Giolitti, non ricordo bene). Non ha mai voluto svelare il nome del suo riluttante ed estremista amico. “Ti prego Giampiero, dimmi chi era”, “Mai”. “L’hai più rivisto?”, “Mai”.

E poi gli scettici, i detrattori, sempre a proposito della sgangherata teoria del Mughini uno e due, dovrebbero cercare di capire che il nucleo filosofico del mughinismo sarebbe incomprensibile se non si tenesse nel debito conto la commistione inestricabile, nella sua fertile immaginazione letteraria, di erudizione ed erotismo, cultura sofisticata e fantasie sessuali, comprese anche, anzi soprattutto, quelle che gli odiosi moralisti bollerebbero addirittura come perversioni lubriche. Del resto, in una splendida intervista apparsa tanti anni fa su Mondoperaio, Mughini lasciò a Leonardo Sciascia il compito di scolpire con apodittica concisione l’elogio della lussuria: “La lussuria è un fatto puramente mentale”. Eccolo, è proprio lui. In una mensola di una libreria-gioiello che faceva bella mostra nel Muggenheim (copyright Pablo Echaurren) di via della Trinità dei Pellegrini, illuminata dalle due serigrafie di Andy Warhol con il faccione di Mao troneggiava una ricca collezione di cassette porno, che io sbirciavo mentre Giampiero voleva illuminarmi sull’importanza della prima edizione del 1914 dei “Canti orfici” di Dino Campana. E quando scrisse il suo primo “Dizionario sentimentale”, tra un ritratto di Pierre Drieu la Rochelle e una citazione di Simenon, tra un’apologia di Clint Eastwood e un racconto sull’ospitalità amicalmente concessa a Franco Piperno inseguito nel caso “7 aprile” sotto l’accusa di fiancheggiamento con le Br e rifugiato nella stanza degli ospiti con una toilette arredata in stile liberty (anche Daniele Del Giudice in rotta coniugale verrà in seguito lì ospitato), compare alla lettera F la luciferina voce “Fellatio”. Che però, nell’universo stilistico di Mughini, doveva essere sublimata in una griglia di riferimenti artistici che ne mitigasse la scandalosa crudezza. Come questa: i “tocchi di lingua” che lei “sceglie se ricamare secondo le linee rette del déco o quelle sinuose e avvolgenti dell’art nouveau”. Verso la fine degli anni Settanta mi trascinò riluttante a vedere con lui non ricordo quale capolavoro della filmografia porno in un cinemetto di Piazza Esedra allora scalcagnato e specializzato in quel genere d’arte che si chiamava Modernetta e che oggi, ridipinto, ribattezzato e trasformato in una sala molto glamour, ospita eventi prelibati della mondanità cinematografica. Dopo venti minuti, annoiatissimo per la ripetitività meccanica dei gesti eseguiti con impeccabile esprit de géométrie dalle attrici e dagli attori, esaurita l’intera gamma delle posizioni pornograficamente canoniche, gli sussurrai, a bassa voce per non farmi sentire dagli altri quindici spettatori solitari disseminati nella sala: “Che palle, e se me la telassi ti offenderesti?”. E lui, con bonario sarcasmo: “Ma che sei diventato, puppo?”, con un’espressione siciliana che se fosse stata in vigore la legge Zan, culturalmente sospettosa verso ogni manifestazione di sarcasmo sia pur bonario, gli sarebbe costata l’ergastolo ostativo o quantomeno l’espulsione con ignominia dalla casa del “Grande Fratello” (già rischiata peraltro anzitempo per una “zoc…la” di troppo, seguìto da immediato e virtuoso rimprovero di Alfonso Signorini.

E torniamo alla tv, su e giù fino all’attuale apoteosi nel Truman Show del “Grande Fratello”. Subito dopo aver pubblicato nel 1987 il suo aspro e doloroso congedo con la retorica della sinistra amata e sposata in gioventù, il “Compagni, addio” che gli valse – l’espressione è dello stesso Giampiero – “la  dannazione civile presso i miei sodali d’un tempo”, Mughini ebbe l’ardire di compiere un gesto deflagrante nello schema antropologico dell’intellettuale di sinistra che aveva già ostracizzato quella a colori, profanazione dell’austero bianco e nero. Giampiero Mughini affiancò spudoratamente alle sue maniacali visite ai bouquinistes lungo la riva sinistra della Senna la partecipazione alla disprezzatissima tv di intrattenimento. E tra un saggio su “Gli altri libertini” di Pier Vittorio Tondelli e una ricostruzione della controversa parabola politica dell’Action Française, divenne co-conduttore di una trasmissione leggera pomeridiana insieme a Loretta Goggi (scandalo nella sussiegosa Repubblica delle Lettere con il critico televisivo dell’Espresso Sergio Saviane che lo soprannominò sprezzante “Mughetti”). Poi, dopo allenamento preliminare nell’arena urlante del “Processo del lunedì” di Aldo Biscardi (scandalo), l’irruzione nelle trasmissioni tv della curva sportiva (scandalo). Prima “Contropiano”, che era una corrida perché ogni volta che il nome “Giampiero Mughini” veniva annunciato dal conduttore Sandro Piccinini partiva puntuale tutto un berciare di fischi e ingiurie, accolto dalla vittima con una ancorché muta espressione di incontenibile disgusto. Poi il più colloquiale “Tiki Taka” di Pierluigi Pardo. E una presenza costante nei talk, movimentata chez Costanzo da un paio di spettacolari scaramucce con Vittorio Sgarbi. Infine, prima del “Grande Fratello”, una agitata partecipazione al monumento nazional-popolare di “Ballando con le stelle” (scandalo). Mughini non sopporta che questo Mughini straconosciuto dal popolo tv (l’“aborrrrrrrrooooo” di Tullio Solenghi) sia considerato diverso o addirittura inferiore al Mughini squisito cultore di prime edizioni novecentesche. Quando Vincenzo Mollica si lasciò sfuggire “lasciate perdere il Mughini che vedete in televisione. Il Mughini vero è un uomo di cultura smisurata”, Giampiero se ne offese, non per la “cultura smisurata”, ma per l’implicita riprovazione che traspariva dalle parole di Mollica. A cui il Mughini uno e due replicò con vibrante disappunto: “Non c’è un mio sorriso o ghigno televisivo fatto per ‘piacere’ o per arrivare più facilmente all’anima del telespettatore. Non c’è un sorriso o un ghigno fatto per dimenticare il dolore del vivere”. Lui ha sempre parlato di “Giovane Critica”, tiratura sulle duemila copie più o meno, come di un universo lontano milioni di miglia dallo schermo tv in cui ogni “ghigno o sorriso” impatta come minimo su due milioni di persone “che ti guardano un attimo, il tempo di vedere com’è pettinato il tuo ciuffo”. Ma non sopporta che tanti altri performer del circo tv imbrattino il mondo amato dei libri contaminandolo con l’ignoranza delle arene televisive: “Durante una trasmissione condotta da Maurizio Costanzo sentii dire da Alessandra Mussolini che la ‘Lolita’ di Vladimir Nabokov era un ‘romanzo pornografico’. Alla fine della puntata mi avvicinai a lei e le dissi che mi stupivo che da un nonno talmente intelligente fosse venuta una come lei”. Replica non pervenuta.

E ancora la tv. Nel Muggenheim di via della Trinità dei Pellegrini ho visto molte partite della nostra Juve, in religioso silenzio. E con la morte nel cuore quando, sgomenti, assistemmo insieme alla carneficina dell’Heysel, in compagnia di Elio, il grande amico catanese di Giampiero che ora non c’è più. Se non ricordo male il televisore era l’unico oggetto in tutta la casa non firmato da qualche celebre designer, benché Mughini non potesse nemmeno cominciare a guardare una partita senza essersi seduto sulla poltrona “Rosso e blu” dell’olandese Gerrit Thomas Rietveld, che io nemmeno sfioravo per non finire come la buzzicona delle “Vacanze intelligenti” con Sordi, stravaccata su un’opera d’arte d’avanguardia nella Biennale da lei scambiata per uno strapuntino. Ma in quelle stanze, vieppiù arricchite nel secondo Muggenheim di Monteverde, non esisteva sedia, poltrona, tavolo, divano, ceramica, porcellana, mobile, soprammobile, servizio di piatti, quadro, fotografia, lampada, libreria, vaso, ripiano, consolle, copertina di vinile, disegno che non fosse tassello pregiato di una collezione del Novecento italiano di cui Mughini conosceva la storia di ogni frammento, di ogni prezzo all’asta, di ogni nevrosi d’autore. Ho imparato lì il valore di nomi che sino ad allora non erano in cima ai miei pensieri e ai miei orientamenti molto libreschi, da Enzo Mari a Gaetano Pesce, da Ico Parisi a Vico Magistretti, da Gio Ponti a Ettore Sottsass e chissà quanti altri. E poi Mughini è un maestro degli accostamenti, come quello che mi ha sempre colpito delle foto rare di due celle affisse su una stessa parete in bella vista per gli ospiti: una che raffigura Adolf Eichmann mentre stende la sua basica biancheria nella prigione di Gerusalemme, e l’altra della terrorista Maria Pia Vianale, che conoscevo bene perché aveva insultato a morte mio padre quando, come rappresentante dell’Ordine degli avvocati, la difendeva d’ufficio in tribunale. Una collezione che suscita in Mughini un’apprensiva gelosia (la vendita della sua formidabile collezione di primizie futuriste fu vissuta da lui come un lutto dell’anima). Ma quando una volta Nanni Moretti, per tastare la tenuta nervosa del padrone di casa, si produsse in un numero acrobatico con una tazzina dal prezioso design da far volteggiare in aria per poi acchiapparla con il palmo della mano dietro la schiena, Giampiero restò eroicamente immobile. Riuscito il primo tentativo, olè, il secondo, e il terzo pure. Ma al quarto olè la tazzina precipitò in terra, frantumandosi in mille pezzi. Senza dire una parola, lo sguardo di ghiaccio ad evitare quello di un mortificatissimo e incredulo Nanni Moretti, Mughini andò a prendere la scopa per raccattare i residui di ciò che, intera, era stata l’opera di un grande artista. Un sacrilegio consumato in un abissale silenzio, che però non avrebbe impedito a Giampiero di partecipare a una memorabile scena del morettiano “Sogni d’oro” (prima c’era stato il cameo di “Ecce bombo”) dove, potenza delle coincidenze, interpretava il moderatore di un duello all’ultimo insulto nel siparietto di una trasmissione trash.

Però, conoscendolo bene, mi riesce difficile comprendere come Giampiero abbia fatto a resistere tanto tempo, sia pur spiritualmente vincitore, dentro la prigione trasparente del “Grande Fratello”, segregato dentro un arredamento dozzinale, privato dei libri e dei giornali che gli sono nutrimento quotidiano, con coinquilini che in maggioranza sembrano usciti a stento dalla scuola dell’obbligo, intrappolato nella tortura di orari assurdi, senza la compagnia dei due amatissimi cani di nome Bibi (come la Bardot) e Clint (nel senso di Eastwood). Immagino i suoi silenziosi ma implacabili e quotidiani Uffa!, come recita il titolo della sua rubrica sul Foglio (che ora torna, terminato l’esilio). Ma lo conosco bene, e adesso che fa ritorno tra noi lui dirà che è stata un’esperienza formidabile. Uffa! Bentornato, Giampiero.

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