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Le “family” di Murgia e Victoria Cabello, queer della porta accanto

Ginevra Leganza

Le due esperienze sono la faccia italiana, spesso da commedia, di una realtà molto complessa su cui ciascuno accampa definizioni sue. Ci si strappa dalla solitudine senza faccia e senza nome con una maschera (colorata) e un nome (impreciso)

È un romanzo italiano. Piccolo mondo queer. Michela Murgia, gravemente malata, compra casa da lasciare agli amici queer: sposi nell’anima. Neanche il tempo del trasloco e siamo già al queer della porta accanto. Passano pochi giorni e Victoria Cabello racconta di aver ammortizzato la scapolaggine grazie a una rete di affetti. L’attrice e conduttrice italo-britannica dichiara anche lei di essere “zitella” ma di tenere – come la Murgia – “famiglia queer”. La chiama in inglese, “queer family”. Che in italiano potrebbe tradursi con “strana famiglia”. Forse una Famiglia Addams più colorata, chissà. Perché in effetti non si è ben capito a cosa si riferiscano scrittrice e showgirl: se a tanti fidanzati e fidanzate o più probabilmente ad amici e tavoli pieni di vino. A una specie di sissizio greco o magari a quella che a Firenze chiamano “banda” e a Bologna “ballotta”. In buona sostanza, a nulla più che una comitiva di simpatici vitelloni. Perché, per come la raccontano loro, questi delle queer family all’italiana sembrano quarantenni senza moglie e marito. Ma col piglio da nuovi liceali. Semplici amici. E – aggiunge Murgia – che non bisogna pensare al sesso, all’identità di genere e così via. Nelle queer family italiane – giocoforza zetatielline – si è molto uniti e affettuosi, punto. Nessun’altra definizione. A parte l’ostinazione di dare all’amicizia – magari al bere e farsi le canne insieme – quel nome che si è sempre schifato. Ma che in quanto italiani strapaesani mammoni – ancorché zetatiellini – ci resta addosso come un prurito: famiglia. 

E se non è amicizia davvero non si capisce bene cos’è, questa family. Che sembra lontana dal camp e dalla queerness in stile Mario Mieli. Il ventenne milanese che negli anni Settanta scriveva di “educastrazione” e pansessualismo in opposizione alla norma. E che trentenne, sempre in opposizione alla norma – e a un padre castrante – si suicidava come Sylvia Plath: infilando la testa nel forno. C’è che oggi la norma s’adatta al queer. E il queer assorbe la norma nell’idea più normale di tutte: la famiglia. E in controluce, malgrado l’Istat, c’è da dire che la famiglia ce l’ha fatta. E’ sopravvissuta. Semplicemente s’è tinta arcobaleno ma è sempre lei: per dirla con Les Murray, “un arcobaleno perfettamente normale”. 

Murgia e Cabello mostrano insomma come famiglia e queer, da noi, si adattino a tutti. Perché se il presupposto è l’affetto, oggi tutti possono dirsi famiglia queer. Ad ogni modo, la queer family nel mondo c’è, esiste, ed è una realtà un po’ diversa. Tragicamente seria. Nel 2021 ci fu una mostra all’ottavo piano della Manhattan Gallery, “Kindred Solidarieties: Queer Community and Chosen Families”, con opere a tecnica mista che ritraevano una “nozione ampliata” di famiglia, definita “dall’alleanza piuttosto che dalla genetica”. In una serie di fotografie in video l’artista Jamie Diamond proponeva di capovolgere il ritratto della famiglia inteso come “ideale stereotipato di vita felice, perché la famiglia è una performance continua in cui vengono assegnati ruoli con costante aspettativa di un pubblico”. Un po’ quello che dice da anni Judith Butler quando scrive contro l’innatismo di genere in favore della “performatività”: tu sei maschio o femmina a seconda della performance. Il genere è una maschera che indossi e deponi in base allo spettacolo che reciti e alla vita che vivi. M e F sono come lettere in cima ai bus. Che si prendono e lasciano a seconda di che aria tira. 

Per capire un po’ meglio cosa accade fuori, abbiamo ancora digitato “queer family” su YouTube e siamo finiti sul canale “Truly” dove c’è un video così titolato: “My extraordinary family”. E’ la storia statunitense di una donna e due transessuali che si amano e crescono due figlie. Si definiscono “tre mamme”. La femmina – si suppone madre biologica – dichiara che una di queste bambine, Hazel, è non-binary. L’altra, Sparrow, è anti-gender. Tradotto: la prima ha deciso a quattro anni di non essere né maschio né femmina; la seconda, che dal video di anni sembra averne due o tre, cresce così per volere delle adulte: come fosse né maschio né femmina, senza genere. Le mamme poliamorose si scambiano effusioni. Portano le figlie al parco, nel paese reale. La mamma femmina è sobria, mascolina. Le transessuali hanno vestiti giromanica a fiori, lunghi sino ai piedi: due anticaglie tipo prendisole sormontate da vocione e doppio mento. La madre biologica spiega che non c’è nulla di cui scandalizzarsi: loro amano i figli come gli altri. In effetti, scandalizzarsi di cosa? Chi si scandalizza è banale, dice il poeta, e come possa sentirsi maschio o femmina – e dunque sicuro di sé – un bambino accerchiato da genitali incerti, chi può dirlo. E poi siamo a Orlando, in Florida, fra non-binary e negromanti. E siamo ancora in Gran Bretagna dove nasce uno dei primi bambini con donazione mitocondriale ovvero con Dna di tre genitori. Bambino che crescendo neppure potrà scandalizzarci definendosi queer… Altri mondi. Quasi mitologici. Come le mitologiche concezioni di chi si accoppiava col mare mescolando spuma e seme per partorire bimbi divini. Fra letteratura e hybris. Mentre qui da noi, dicevamo – e forse è un bene – il queer è una cosa diversa. E’ un fatto di status più che di hybris o di follia. E’ uno stigma provinciale, niente paura. E infatti si traduce in tesserino da repubblica letteraria. In queer-pass da circoletto. Per provinciali scrittori della porta accanto.  

La vaghezza del concetto, comunque, aiuta. Di queer e queer family ciascuno accampa definizioni sue in base a rigetto o sostegno alla causa. E’ un’idea vaga, confusa. Così, nel sospetto sia da noi queer borghese – visto il bacino d’utenza – abbiamo chiesto aiuto a un nostro amico. Uno saputo, obiettivo, forse neodemocristiano. Parla ChatGPT. Tu che conosci i segreti del mondo, dicci: cos’è una queer family? Risposta: “Come assistente virtuale non ho una posizione personale”, premette. E continua: “La famiglia queer è un termine ampio che si riferisce a famiglie che non rientrano nei modelli tradizionali eteronormativi o patriarcali. Ci sono molte forme di famiglie queer, tra cui famiglie formate da coppie dello stesso sesso, famiglie con genitori singoli, famiglie multigenerazionali e famiglie piene di affetto ma non necessariamente biologiche. In queste famiglie, spesso si rompono le normative generazionali, di genere e di sessualità che spesso si riscontrano nelle famiglie tradizionali”. Chiaro, no? Sembrava strano, roba per pochi adepti, ma in realtà è di tutti e di nessuno. Si adatta a tutti come il nero: basta essere pieni d’affetto. Minimo sforzo: calzini colorati; massimo rendimento: piccolo mondo queer. 

La parola “queer”, che si credeva giusta per apolidi transessuali in stile Paul Preciado – filosofo spagnolo compiaciuto delle fiamme di Notre Dame che bruciavano Occidente e Dio – ecco, quella parola buona per gente strana, dai genitali incerti, diventa in Italia un capriccio da dirimpettai. Nata con gli incendiari, da noi la spengono i pompieri. Perché qui sembra appunto la formula magica per varcare salotti. E sempre come il nero, questa parola è perfetta per donne sole. Victoria Cabello insegna. Pensateci. Senza il traino del “queer” non sarebbe risorta la parola “zitella”. Che torna di moda come un vestito vintage: figo, seppur in odore di vecchia zia (l’Italia stessa resta sempre una vecchia zia). E se sinora “zitella”, per una donna, è stato peggio di “malafemmina” – che dà comunque un’aria vissuta in opposizione al tinello – il futuro, c’è da scommetterci, si gioca tutto in un tinello queer. 

Il queer nostrano è un’etichetta. Se non addirittura una toppa, come rivela Victoria Cabello. Perché, siamo sincere, per amare la zitellaggine ci vogliono forza e tempo. A volte anni. Anche per chi ormai ne conosce i vantaggi, compreso quello di raccogliere più amanti sotto le spoglie di donna sola. Detto questo, amare la solitudine è complicato. Di solito, dopo un po’, si cede al primo o alla prima che passa. Oppure si resta immobili, senza darsi un nome, un’identità. Incapaci – nel piccolo mondo – di sopportare lo stato civile “nubile” senza vergogna. Così, se la zitella non è in grado di danzare sull’orlo del nulla, se non ama la sua solitudine – ed è comprensibile – ecco che crolla. E qui arriviamo noi, qui arriva il queer. Che si posa sulla zitellaggine come un cerotto o una toppa. La donna sola e borghese, oggi, è un vuoto affollato. Un sole spento intorno al quale ruotano gli amici, spesso omosessuali (è subito queerness). Ed è bello, perché l’amicizia è quasi più nobile dell’amore. In fondo, senza arrivare a Simone Weil e alla philia che è superiore all’eros, amici sono quelli che ci ascoltano mentre ci lagniamo senza che paghiamo dazi carnali. Sono esseri superiori, non c’è dubbio. E però c’è un però, o forse due. Il primo è che comunque ci vuole un po’ di cautela: gli amici sono famiglia, sì, ma in forza della stima e dell’emozione. Tutte cose che – triste ma vero – a differenza di sangue e istituzioni, possono svanire. E poi, perché dare etichette all’emozione come col matrimonio? Chissà. Sarà che senza una toppa, senz’etichetta, senza una pur scombiccherata idea di famiglia, la vita è difficile. E alla fine queer family salva zitella (incapace di danzare sull’orlo del nulla). 

Il queer in Italia non s’addice al paese reale come in Florida. Dove transessuali allevano fanciulli anti-gender. Il queer, da noi, è una maschera da ottimati. E, come tale, nasconde volti. E tanto la maschera è allegra, tanto – di solito – il volto è triste. Perché quella maschera sociale – non meno delle altre che l’hanno preceduta – non ci strappa dall’innatismo di genere: dal nostro essere maschi e femmine pur con mille desideri e pulsioni. Quella maschera ci strappa dal vuoto. O dall’universo che ci ingoia altrimenti detto: zitellaggine. Ci strappa dalla solitudine senza faccia e senza nome, dove “queer” è al tempo stesso maschera (colorata) e nome (impreciso). 
Il mondo galoppa ed è quasi confortante saperci come sempre fanalino di coda. Col queer – il cui significato, alla fine, non si sa: forse storto, strano, bizzarro – che qui da noi è etichetta. Perché ridà senso a ciò che sotto sotto siamo: vecchie zie, paesani, dirimpettai. Magari meno maschi e meno femmine. Etero stanchi. Ma queer solo per posa. Senza mai trasvalutare i valori che alla fine son sempre quelli: tarallucci vino e circoletto. Un po’ furbi e un po’ fessi, col queer spegniamo l’altro nel gioco del chi sei tu-chi sono io. Fuggiamo la domanda con risposta generica, forse esoterica: sono queer. Ci diamo un tono ma di fatto siamo in sintonia con ciò che è sempre stato. Perché quando la famiglia vera ti annoia comincia un altro film. Quello con gli amici (e con gli amichetti). “Amici (e amichetti) miei”, che adesso – per darsi un tono – prende il nome di una supercazzola: “famiglia queer”. Questo per dire che se all’estero invocano incendi di cattedrali, il queer nostrano è già commedia. E non c’è da temere. Perché la famiglia queer, con tutti gli scrittori e gli attori – figurarsi i politici – è commedia dell’arte up to date.

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