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contraddizioni

Vino e glifosate. Le incoerenti reazioni di chi usa il salutismo a convenienza

Roberto Defez

Ci si indigna perché l'Agenzia della ricerca sul cancro dell'Oms ha ricompreso la bevanda alcolica tra quelle "sicuramente cangerogene". Dimenticando di fare lo stesso quando si parla del diserbante, ostracizzato dalla stessa agenzia e che però ha una pericolosità molto inferiore

C’era una volta la pubblicità del “Confetto Falqui”. Ma la pubblicità di un lassativo nell’Italia puritana anni ’60 non poteva spiegarne bene gli effetti e gli usi. Così i geniali pubblicitari inventarono uno stratagemma diventato poi uno slogan indelebile: “Basta la parola!” Così, senza dire nulla, alludevano all’indicibile (in televisione). In questi giorni assistiamo a una infiammata polemica sul vino: fa bene, fa male, restringe il cervello, no aiuta la circolazione, è cancerogeno, no non fa male. Premesso che provo una simpatia istintiva e ragionata per la professoressa Antonella Viola, la polemica mi ha sorpreso per la faziosità di alcuni negazionisti dei danni da vino, capaci di sventolare una bandiera a due facce (tra loro opposte), esibendo un lato o l’altro secondo convenienza.

Quando si parla di alcool, quindi dai superalcolici al vino alla birra, il giudizio dello Iarc, l’Agenzia della ricerca sul cancro dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), secondo i negazionisti non ha valore. Lo Iarc ha classificato l’alcool, quindi anche il vino, nella categoria dei “sicuri cancerogeni”, la categoria 1 (qualunque cosa questa assurda classifica del rischio voglia dire). Ma siccome il vino è buono, l’Italia è grande produttrice, ne esportiamo a fiumi, tiene in piedi l’intera bilancia dello scambio import/export agroalimentare, allora il vino è buono, fa bene e non si tocca. Si può solo discutere se berne uno, due o tre bicchieri.

Ma pochi conoscevano lo Iarc per il suo giudizio sul vino, era invece noto per aver messo in una (altrettanto assurda) classifica di “probabile cancerogeno”, la categoria 2A, un diserbante tra i meno dannosi mai prodotti al mondo: il glifosate. Ecco, taluni che difendono a spada tratta il vino tricolore, invece etichettano il glifosate, come il confetto Falqui, col mitico: “Basta la parola”. Ossia è cancerogeno anche solo scrivere il nome g-l-i-f-o-s-a-t-e!

Ora, logica vorrebbe che se si crede allo Iarc, lo si fa sempre. Se non ci si fida di queste strane classificazioni (e io sono tra questi) si dubita sempre e si cerca ogni volta di interpretare le sue affermazioni. Provo a spiegarmi. Sia per il vino che per il glifosate è la dose che conta. Non basta la parola. Per il vino i negazionisti hanno provato a spiegarlo (malino) ignorando le prescrizioni di Paracelso, ossia dipende quanto ne assumete (io, un bicchiere di rosso solo la sera). E soprattutto, ogni sostanza o attività ha un rischio (a quello pensa Iarc), ma quello che conta è il pericolo, ossia la probabilità che il rischio si concretizzi, data la frequenza, il peso corporeo, il dosaggio, etc. 

 

Ma se le grandi associazioni di categoria agricole ammettessero un ragionamento sulla dose, poi avrebbero difficoltà a criminalizzare alimenti dove il glifosate si ritrova in tracce da un milionesimo di grammo, mentre assolvono il vino che ha 12 grammi di alcool per bicchiere. In entrambi i casi, meglio delle categorie sommarie dello Iarc (riprese talvolta dall’Istituto Ramazzini), sarebbe utile usare i principi della tossicologia, quelli che usano l’Oms, la Fao (l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura), l’Efsa (l’Autorità europea per la sicurezza alimentare) e tutte le agenzie regolatorie mondiali. 

 

Lo Iarc mette nella categoria 1 dei sicuri cancerogeni anche i raggi ultravioletti del Sole; la produzione di alluminio; le fibre acriliche; le emissioni casalinghe di carbone; il lavoro di pompiere; la polvere di cuoio; l’attività di pittore; l’inquinamento dell’aria all’esterno delle case; il fumo anche indiretto di tabacco; la segatura. E nella categoria del glifosate, quella dei probabili cancerogeni, mette anche: il lavoro in vetreria, la combustione casalinga di pellet, le fritture, il lavoro di barbiere e parrucchiere o il consumo di carni rosse. La questione resta sempre la stessa: un hamburger alla settimana è solo un rischio, tre volte al giorno diventa un pericolo. Per le migliori paste italiane se ne possono mangiare 116 kg al giorno, ogni giorno, per tutta la vita, senza pericoli dovuti alle tracce di glifosate. “Basta la parola” era uno slogan geniale per un’Italia che aveva paura delle parole: oggi invece “Basta ragionare”!

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