Morale col trucco

Le critiche ad Alessia Morani per il trucco e il rigore moralista del Pd

Fabiana Giacomotti

Gli attacchi alla ex deputata per la mise di Capodanno ci ricordano che il viso acqua e sapone è il nostro hijab. Specie al nord

Adesso sappiamo perché l’unica zona d’Italia in cui il Pd abbia vinto a mani basse le ultime elezioni politiche è il collegio 1 di Milano. Perché in nessun altro luogo della penisola, e in nessun altro schieramento politico, si nutre una uguale avversione per le donne truccate. La foto pubblicata su Instagram dell’ex deputata dem Alessia Morani con una canottierina bordata di pizzo che spunta dal blouson di cuoio e gli occhi ombreggiati per una morigeratissima serata di Capodanno col marito e che però si becca una raffica di insulti dai colleghi di partito, ha più di un punto in comune con noi nate all’ombra di santa Maria delle Grazie che a cinquant’anni ci giustifichiamo se, uscendo dal collegamento televisivo, incontriamo un’amica che ci osserva interrogativa e saputa le palpebre accentuate con l’eye liner. Lo sguardo “bistrato”, aggettivo anni Venti che si può ancora ascoltare dalle parti di corso Magenta e quelle rare volte in cui si mette in scena “L’uomo la bestia e la virtù” di Luigi Pirandello, è una questione che le donne occidentali e in particolare quelle italiane del nord, le stesse che poi scendono in piazza per le sorelle dell’Iran che rischiano la morte per una ciocca sfuggita dall’hijab, non hanno affatto risolto. Loro e i loro uomini, colleghi di partito, sodali, fidanzati, amici, amanti. Nei riguardi del trucco proviamo il senso acuto della vergogna e, insieme, il gusto della trasgressione e negli ultimi anni anche della ribellione, perché non è possibile che, mentre i ventenni si scambiano vestiti, discutono di identità di genere e i ragazzi etero, cis e pure un po’ sciupafemmine tornano a tingersi le unghie e gli occhi come nel Settecento, noi che saremmo i loro genitori, la generazione in teoria depositaria di un minimo di sapere e di equidistanza di giudizio, ci ritroviamo ancora incardinati e vittime dei valori ottocenteschi della “proprietà” e della “decenza”, a quel secolo di disgrazie moraliste e di ipocrisie diffuse. 

 

 

Non è possibile che i ragazzi etero, cis e pure sciupafemmine tornino a tingersi le unghie, noi genitori discutiamo del valore della “decenza”


Nel suo piccolo, la povera Morani con quel toppettino senza pretese che tiene a ribadire di non essere neanche più deputata e che è un appello al diritto di oblio, è un derivato diretto e su scala minore, fond de province italienne, dello scandalo che un anno fa colpì la premier finlandese Sanna Marin, ripresa in un video amatoriale a una festa che ballava con le amiche, anzi con un uomo. E che forse aveva bevuto. E che forse chissà cosa e che comunque dovette spiegare nel corso di una inchiesta. La donna che balla, che lasciva. La donna che si trucca, che orrore. La donna che sa di moda, che frivola. Non trovereste questo rigore moralista nemmeno nella Bibbia, che infatti è tutto fuorché ipocrita e moralista e che comunque è stata scritta in paesi dove un giro di kohl attorno alle palpebre aiuta a tenerli disinfettati da tempi immemori: alla fase del trucco-parrucco di Ester futura regina persiana, dodici mesi di trattamenti, manco Gloria Swanson in “Viale del tramonto” per prepararsi all’incontro con Cecil B. De Mille, è dedicato anzi l’ampio spazio che merita un’informazione così ghiotta. Questo moralismo codino, il cui sfondo è come ovvio la repressione e un controllo sessuale di stampo politico-patriarcale a cui si accodano spesso volenterose carnefici di sesso femminile, lo trovate però nell’Europa del nord della borghesia bisognosa di legittimazione, l’area dei ritratti di Rubens e Van Dyck che hanno tutti lo strano sguardo estruso e senza ciglia del coniglio, appunto perché sono di pelo biondo e non sono truccati, e in quel suo succedaneo ancora e sempre Asburgo d’Austria che è l’Italia del nord, che non si “acchitta”, non si pavesa a festa, in cui le femmine perbene scivolano via come acque chete in pantofoline di velluto e se fanno crollare i ponti lo fanno senza parere e comunque negandolo oltre ogni evidenza. 

 

Non trovereste questo rigore moralista nemmeno nella Bibbia: al trucco-parrucco di Ester, futura regina persiana, è dedicato ampio spazio

  
La tizia che subito dopo il voto aveva rivendicato con orgoglio in un lungo post di Facebook la vittoria “della compagine del tacco-trucco contro le noiose del tacco basso e la faccia slavata e la loro superiorità malriposta” e che noi avevamo liquidato come una cretina, perché come si fa a raccontare l’approdo della destra a Palazzo Chigi dalla prospettiva del nostro armadio, sei mesi dopo ha dimostrato di avere ragione da vendere. Dopo gli attacchi alla povera Morani col toppettino bordato di pizzo e gli inviti dei suoi colleghi di partito a chiedere asilo al “Grande Fratello” o in alternativa a nascondere la propria femminilità “come Mara Carfagna”, un dirigismo che neanche nell’islam perché non parte nemmeno da basi religiose, da ogni parte è salito un coro invidioso e malmostoso verso “quelle della destra” che, presuntamente, godrebbero del diritto di non mortificarsi. Insomma, un secondo, sonoro schiaffo dopo la vittoria di Giorgia Meloni e l’evidenza che sulla poltrona che fu di Mario Draghi “i suoi” l’hanno fatta sedere, senza neanche coalizzarsi allo spasimo per sgambettarla e senza passare all’attacco per la sua bionditudine che, anzi, è stata valorizzata da un parrucchiere romano, mettendo fino anche in Italia allo stereotipo della dumb blonde, la bionda scema. Alla fine aveva ragione Gaber; che cos’è la destra, che cos’è la sinistra: vasca contro doccia, tacco a spillo contro friulana. Simboli da quattro soldi, buoni appunto per i paradossi e le ironie e le ballate o per farne materia di sceneggiatura nelle commedie cinematografiche, Paola Cortellesi in maglia leopardata e tacchi alla festa a Capalbio fra le signore in bianco e piedi nudi che parlano sommessamente, ostentando una gentilezza che in realtà non possiedono. 

 

La vittoria elettorale della destra, “compagine del tacco-trucco contro le noiose del tacco basso e la faccia slavata e la superiorità malriposta”

 
E’ una cosa che ti inculcano fin da bambina, di solito anche la prima e l’unica volta in cui perfino nelle famiglie più ostili al turpiloquio si sente pronunciare l’appellativo di “battona”. Tante di noi, anzi, hanno appreso dell’esistenza della professione (“chi è? Ma che cosa batte?”) così, perché volevano passarsi sulle labbra il rossettino trovato nella favolosa valigetta da parrucchiera di cartone pressato e finta pelle che una zia nubile, improvvida e dimentica del diktat, aveva deposto per noi sotto l’albero di Natale. Fra le spazzoline e i bigodini rosa era spuntato, meraviglia, uno smalto in confezione mignon di plastica azzurra e un tubetto di quella sostanza grassa e colorata che ci avrebbe reso simili alle principesse bocca di rosa riprodotte sugli album delle fiabe sonore Fabbri Editori. Non si poteva. Smalto e rossetto erano armamentario delle signore che battevano qualcosa, l’avevamo sentito pronunciare a mezza bocca in corridoio al papà mentre la mamma lanciava occhiate torve alla valigetta che noi, estatiche e ostinate, ci ostinavamo a non consegnarle “fino a quando sarai più grande”, chiara indicazione che non l’avremmo più rivista. 


L’amica nata anche benissimo nel centro di Napoli, che tinge spavalda le unghie dagli anni dell’adolescenza mentre noi abbiamo mandato a memoria la lezione di Franca Valeri “sui piedi sì perché fa soigné” e le mani no “perché fa mantenuta”, ci vede alternare fra mille timori il rouge noir Chanel – che non è il rosso fuoco della Crystal Allen rubamariti delle “Donne” di Cukor, anzi ci facciamo convincere da Lisa nata a Cheng Du Shi che sia un “neutro, non preoccuparti” – alle mani nude che però, soprattutto in inverno, si screpolano e si macchiano e non sembrano affatto soigné. Che, insomma, con una passata di smalto sembrerebbero meno trasandate. L’alternanza di sentimenti contrastanti attorno al trucco, a una cura di sé che non sia quella minima e talvolta nemmeno quella (le cronache romane hanno salutato con gioia i capelli lavati di Elly Schlein alla presentazione di un libro collettaneo sull’accesso trasversale ai diritti di base, che evidentemente e finalmente includeva anche quello allo shampoo) è però una sensazione che noi del collegio 1 o genericamente dell’Italia del nord o che insomma non vorremmo dover giustificare le nostre unghie laccate squadernando ogni volta il curriculum ci portiamo dentro dall’infanzia. Il trucco che anche quando c’è non deve sembrare tale e che comunque è meglio che non ci sia (“ma dove vai truccata così, devi vedere qualcuno?”, ci dice l’anziana collega astiosa, intendendo naturalmente che stiamo per andarci a letto, ecco da dove verranno le nostre future collaborazioni) è una nozione che respiriamo con l’aria, che ci avvolge negli ambienti in cui viviamo e che riscontriamo ogni minuto in tutta una serie di piccoli dettagli che si estendono, per esempio, alla nostra preferenza per le tende scorrevoli a pannello mentre a Roma si ordinano ancora le mantovane. 


Gio Ponti a Roma non sarebbe diventato nessuno: per fiorire, aveva bisogno di un ambiente neutro come le unghie che ci tinge Lisa ogni due settimane. La battaglia della donna bennata contro le tentazioni del trucco è dura, impervia, grandemente noiosa e per di più resa aspra da uno spettacolare sfoggio di ignoranza comune. Bibbia a parte, nemmeno la Chiesa Cattolica Romana è infatti contro la cura del corpo, come ricordava anche una teologa su una testata toscana un paio di anni fa, in risposta alla domanda di una signora di età imprecisata ma comunque timorosa che l’ombretto e il fondotinta , “peccato di vanità”, la allontanassero da Dio. Non sappiamo se la risposta, un papello lungo due pagine sulla valorizzazione della bellezza interiore che però non significa presentarsi al mondo come l’orco del racconto di Basile, abbia portato alla rassicurazione che la signora chiedeva. Però, non ci sono dubbi che si tratti di una questione lungi dall’essere risolta: la faccia esposta acqua e sapone è l’equivalente del nostro hijab, la perfetta sovrapposizione fra interno ed esterno che dobbiamo mostrare al mondo. Là tutto si deve nascondere, qui tutto si deve mostrare, e che sia tutto specchiato. L’apprendistato della valigetta del parrucchiere è continuo e costante; finita con lo smaltino vietato a sei anni si prosegue verso i tredici col lucidalabbra passato di nascosto sull’ascensore, si finisce a trenta con il cosiddetto “trucco naturale”, che dovrebbe regalare un’aria “acqua e sapone”, cioè un’aria non truccata e che, naturalmente, costa un occhio della testa fare, sia in termini economici sia di tempo impiegato. 

 

Il modello del collegio 1 di Milano, della Lombardia e del Piemonte sabaudo (Venezia è un’altra storia) è la Clara Maffei ritratta da Hayez

  
Il modello del collegio 1 di Milano, della Lombardia e del Piemonte sabaudo (Venezia è un’altra storia, innanzitutto più cosmopolita) è sempre la Clara Maffei ritratta da Hayez con i bandeaux lisciati sul capo (e debitamente sporchi, lo si vede da quella ciocca lucida e staccata dalle altre sulla sinistra del capo nel ritratto del 1845, un particolare che Luchino Visconti colse certamente quando dovette trasformare Claudia Cardinale nell’Angelica in corso di elevazione sociale: le ordinò di non lavarsi i capelli per giorni), la faccia olivastra e unticcia, la camicetta accollata e il corsetto tirato a cinquantacinque centimetri.

  

  

Che poi vivesse con un uomo come Carlo Tenca che, pur grande attivista, non era suo marito, e che ricevesse a casa politici e musicisti in un secolo ancora lontanissimo dall’istituzione del divorzio non aveva alcuna importanza. Era colta, di ottima famiglia, difendeva i valori della patria unita e in ogni caso non era truccata come le puttane che i casini di Brera ospitavano a cinquecento metri da casa sua. 

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