Giuseppe Valditara, ministro della Pubblica istruzione e del Merito (LaPresse)

Cattivi scienziati

Discutiamo di merito e non siamo d'accordo nemmeno sul significato della parola

Enrico Bucci

Capacità, risultati o ricompense: cosa intendiamo per davvero? Spesso le discussioni divisive nascono per il fatto di non essersi assicurati di definire bene l’argomento in oggetto. Un'indagine semantica, dal latino fino ai giorni nostri

La discussione innescata dalla nuova denominazione del ministero della Pubblica Istruzione, che oggi comprende la parola “merito”, non accenna a placarsi, perché deve aver evidentemente toccato un nervo scoperto. E così, anche nella mia bolla sociale, anche quando si parla d’altro, essa riemerge, attraverso diverse connessioni con il tema di volta in volta in discussione, e immancabilmente genera divisione, anche quando non ve ne sarebbe motivo.

Ora, siccome sono un po’ stufo di argomentare come se si fosse in disaccordo anche quando evidentemente tale disaccordo è infondato, mi sono chiesto se non abbia ragione un mio amico marchigiano. Il mio amico Paolo ritiene che, nel 90 per cento dei casi, le discussioni divisive nascono per il fatto di non essersi assicurati di definire bene l’argomento in oggetto: il disaccordo, cioè, nascerebbe innanzitutto da una differenza di attribuzione di senso semantico a qualche termine ambiguo, il quale, inteso diversamente dagli interlocutori, farebbe appello per ciascuno di essi a diversi valori e significati, generando una contesa sterile.

 

Seguendo il suo consiglio, proverò quindi a dare una più circoscritta all’abusata parola di merito, per illustrarne almeno due diversi significati, e spero per prevenire qualche ulteriore, vischiosa discussione all’interno della mia piccola comunità di lettori. Vediamo, dunque, di partire dall’etimologia della parola stessa, secondo il mio amato Vocabolario Etimologico della Lingua Italiana di Ottorino Pianigiani.

Merito è parola latina che deriva da una radice greca antica, comune alle parole in quella lingua μερὶς, ovvero parte, porzione, e anche μεριζω, ovvero spartire, dividere, distribuire, e termini vari da questi derivati; questo significato e le corrispondenti parole greche si trovano infatti in molte fonti, fino agli scritti del cristianesimo arcaico. Successivamente si è avuto uno spostamento di significato: Pianigiani ci spiega come la parola latina meritus, derivata dalle greche indicate, corrisponda a ricompensa da distribuire; questo perché in genere un premio, e specialmente un bottino di guerra, andava spartito fra i vincitori, per cui l’originale significato di “diviso in parti” andò per antonomasia a significare il premio che doveva esser diviso. Successivamente, è avvenuto un ulteriore passaggio semantico, perché, ci informa sempre l’ottimo Pianigiani, si è voluto significare con merito non più solamente il premio da dividere, la ricompensa, ma anche tutto ciò che rende degno di essi, di lode, di gratitudine, e anche di biasimo o di pena. Ed è questo il significato attuale, legato ad un giudizio circa il modo in cui si è agito per raggiungere un risultato, che può essere ritenuto apprezzabile o meno.

 

Per rimanere nell’originale senso legato spesso al bottino di guerra, un soldato che nella prima guerra mondiale avesse dovuto affrontare 20 avversari alla baionetta, esponendosi al fuoco nemico, sarebbe probabilmente stato ritenuto più meritevole di un aviatore che ne avesse affrontati altrettanti, sganciando una bomba sulla loro trincea; il primo avrebbe potuto essere decorato appunto al merito. Nell’esempio fatto, non è cioè il risultato dell’azione quello che identifica il merito, bensì il fatto che, nonostante le difficoltà, si sia riusciti a conseguirlo; e il merito viene premiato, perché la circostanza eccezionale consiste proprio nell’aver vinto quelle avversità per poter svolgere il compito che ci si era preposti.

Quando invece giudichiamo di una persona cui vogliamo far svolgere un determinato compito, ci interessa la prova che sia in grado di svolgerlo in circostanze che in genere non sono eccezionali: per far funzionare bene la nostra società, cerchiamo bravi medici, politici, insegnanti, giudici, giornalisti, ingegneri, macchinisti, tipografi e così via, cioè cerchiamo persone che abbiano le capacità adatte a svolgere un compito che si intende assegnar loro. Non cerchiamo eroi, ma persone dotate; e tanto basta, inclusi i casi in cui cerchiamo chi mostra il massimo delle capacità, cioè ottiene il massimo risultato possibile. A priori, cioè, noi selezioniamo soprattutto e giustamente per le capacità, senza chiederci da dove derivino; e questa è la base perché, come gruppo sociale, si possa funzionare al meglio, insieme al fatto che, interessandoci di avere un gruppo più ampio possibile di persone capaci fra cui selezionare, si deve far in modo durante la formazione dei futuri cittadini da colmare al massimo gli svantaggi iniziali per chi mostra impegno e volontà.

Nei casi indicati, non stiamo cercando il merito, ma appunto il risultato, spesso anche il miglior risultato ottenuto, come utile per la società tutta, e questa distinzione va tenuta bene a mente. Vi può essere grandissima abilità senza merito; per i nostri scopi, ci interessa selezionare soprattutto la prima, ma dobbiamo ben accordarci sul significato del secondo, prima di litigare solo per la confusione semantica. E se invece volessimo cercare il merito, dovremmo ricordarci degli assalti alla baionetta della prima guerra mondiale: la nostra valutazione non può esulare dal modo in cui un risultato è stato raggiunto, e, per dirla con l’ottimo Pianigiani, se quello sia degno di lode, di gratitudine, o anche di biasimo o di pena.

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