Woody Allen sul lettino dello psicoanalista nel “Dittatore dello stato libero di Bananas”, 1971 

tristissimo liberal

L'infelicità dell'elettore di sinistra

Michele Masneri

Sondaggi, ricerche, teorie confermano quello che si sa da sempre. Essere di sinistra provoca la depressione. Farsi carico dei mali del mondo non aiuta, e quando il mondo vota in massa a destra, si va in terapia per capire cosa è andato storto

L’infelicità dell’elettore di sinistra è talmente un argomento trito e ritrito che esistono migliaia di dati, statistiche, ricerche, tutte a confermare la stessa cosa che peraltro si è sempre sperimentata tra di noi empiricamente. Adesso è uscito l’ennesimo sondaggio americano, l’American Family Survey 2022 realizzato su 3.000 cittadini, che mostra come gli elettori di sinistra vivono più depressi di quelli di destra. Nello specifico gli elettori di sinistra sono significativamente meno felici (meno quindici per cento) dei loro omologhi di destra. Il sondaggio va avanti stabilendo che i liberal hanno il 18 per cento in meno delle possibilità di essere “completamente soddisfatti” della loro vita, in particolare le donne (solo il 15 per cento rispetto alle donne di destra che lo sono al 36 per cento). Ora, i sondaggi si sa che lasciano il tempo che trovano, e dall’altra parte però sul “liberal blue” si possono scrivere trattati, anche qui da noi, specialmente dopo le elezioni del 25 settembre.

 

Critiche e autocritiche, flussi di coscienza, analisi e autoanalisi, culminate con le parole di Michele Serra (“Se rinasco voglio essere di destra, è più facile”) segnalano una situazione di non ritorno. Qualcuno ritiene che il fenomeno sia globale: l’infelicità del liberal pare abbia basi cognitive. Siccome è chiaro che noi elettori di sinistra siamo sempre più depressi, anche l’anno scorso verso Natale due psicologi interrogati dal New York Times cercavano di spiegare questa radicale differenza: John Jost e Jaime Napier sostennero che è la razionalizzazione delle disuguaglianze, nozione al centro dell’ideologia conservatrice, a spiegare come mai i conservatori sono di norma più contenti. I conservatori, dicono i due psicologi, sono felici perché accettano le cose come sono. I liberal ovviamente no, cercano anzi di cambiare le cose, e non sono contenti finché anche l’ultima diseguaglianza non è messa a posto (dunque sono destinati a una vita di tormenti). Altri psicologi hanno diverse teorie. 

 
Secondo Arthur Brooks, saggista e professore a Harvard, esperto di felicità, autore di manualoni di massimo successo (“The road to freedom”), che predica come raggiungere la felicità in piccoli passi, questa dipende da molti fattori, alcuni dei quali non possiamo controllare; il 48 per cento per esempio dipende dalla genetica; dunque c’è gente che è felice a prescindere (maledetti); poi ci sono grandi eventi della vita, lutti, incidenti, malattie,  oppure grandi traguardi di carriera: questi contano circa per il 40 per cento del nostro benessere mentale, ma poi ci sono quattro elementi che allenati costantemente giorno per giorno ci dovrebbero dare la gioia o almeno la voglia di non spararci. Queste quattro cose che mischiate insieme controllano il 12 per cento della nostra felicità, e sono la parte su cui si può maggiormente lavorare, sono: fede, famiglia, amici e lavoro. Fede non come necessariamente fede religiosa ma come comunque una religiosità di fondo, un trascendere la mera dimensione materiale; poi la famiglia, gli amici e il lavoro (il successo sul lavoro, qualunque tipo di lavoro sia, dal più umile al più prestigioso, è dato come l’elemento in sé più rappresentativo della felicità). Ma secondo il New York Times, siccome i liberal hanno un problema proprio con tutto ciò che è “Dio, patria e famiglia” teorizzato anche recentemente da Meloni e dai suoi accoliti, è chiaro che siamo destinati all’infelicità (poi ci sono le teorie opposte secondo cui diventi di sinistra in quanto depresso). 

 

In Italia non ci sono studi sistematici ancora, anche se non sarebbe difficile misurare la frustrazione dell’elettore medio, magari nel collegio senatoriale Roma 1: lì il liberal medio, dopo aver passato un anno a sostenere il governo Draghi, dopo aver indossato le mascherine fin dal giorno uno, dopo essersi plurivaccinato, invece che rilassarsi in vacanza ha passato l’estate caldissima e lunghissima a logorarsi sotto l’ombrellone in dibattiti in famiglia, o tra amici, o anche solo in monologhi interiori, tra il Pd e il Terzo polo. Si è sentito dare del renziano e anche un po’ del fascio, e aveva finalmente trovato una piccola quadratura esistenziale, votando alla Camera Pd e al Senato Calenda, o viceversa, e pensando che il paese lo seguisse, in questa strategia sopraffina, e alla fine si è trovato eletto nessuno di questi due candidati gloriosi bensì tale Lavinia Mennuni, una specie di finta bionda, nell’accezione vanziniana del termine, antiabortista e Pro-Life di Roma nord. L’elettore liberal del Roma 1 non si è ancora ripreso, perché una dissonanza cognitiva dell’elettore di sinistra (non solo del Roma 1) è che è assolutamente convinto che tutto il dibattito, la lacerazione, il dramma interiore, e poi la sofferta decisione finale, insomma tutto il suo drammatico processo decisionale, siano caratteri comuni dell’umanità. Il giorno dell’elettore di sinistra è la vigilia. Lì, lui o lei sono onestamente, sinceramente convinti di interpretare un sentimento comune, condiviso, maggioritario. Subentra poi sempre il dato di realtà, confliggente e affliggente. E se non ci sono misurazioni cliniche a captare la depressione dell’elettore di sinistra italiano, basterebbe forse incrociare qualche dato, misurare le ordinazioni di benzodiazepine anche generiche e gli inibitori del recettore della serotonina delle farmacie di Roma centro col dato elettorale per cogliere eventuali correlazioni. Siamo insomma tristi, come ha rilevato Francesco Piccolo, e la tristezza è consustanziale all’elettore di sinistra, che anche quando vince, le rare volte, non può mai celebrare la vittoria, perché sa che dal giorno dopo la vittoria ci saranno spaccature e ripensamenti. L’elettore di sinistra sa che ogni giorno c’è uno di sinistra-sinistra che corre più forte di lui e correrà a distruggere i risultati duramente raggiunti (tipo Bertinotti quando fa cadere il governo Prodi nel 1998). In generale l’elettore di sinistra teme più quelli di sinistra-sinistra che non quelli di destra (anche perché quelli di destra nel frattempo vanno a cena, si divertono, sono al cinema). Il compagno di sinistra-sinistra invece salta fuori mentre meno te l’aspetti, tipo le pischelle che hanno imbruttito a Laura Boldrini sull’aborto: immediatamente il compagno di sinistra-sinistra ti mette nell’angolo e tu non sai come reagire. E qui si entra nel tema centrale, il senso di colpa. 

  
In generale chi è di sinistra tende a sentirsi in colpa per tutto, anche per qualcosa che non si è mai fatto e che è lontanissimo da noi; non esistono evidenze empiriche, non ci sono sondaggi e anche se ci fossero forse sarebbero falsati (come quelli che si autopercepiscono soddisfatti o soddisfattissimi dei trasporti e della raccolta rifiuti a Roma). Si ricorrerà dunque a degli esempi. Per esempio, la lotta di Nicola Fratoianni – uno dei momenti più alti della campagna elettorale di questa estate – contro i jet privati, piaga secolare nel nostro paese; ma il liberal collettivo si sente responsabile anche di questo; torna alla memoria il vecchio “Scusaci principessa”, titolo dell’Unità quando la povera lady Diana perì inseguita dai paparazzi (lì  il giornalista collettivo dell’Unità si sentiva anche un po’ paparazzo londinese e anche un po’ Rupert Murdoch). Il liberal italiano ha infatti questa peculiarità, si sente responsabile di tutto il male del mondo, anche di eventi che mai hanno lambito l’Italia come il colonialismo, il neoliberismo, adesso anche il politicamente corretto che avrebbe inficiato il preclaro messaggio della sinistra nelle masse ormai scatechizzate. Il fatto è che il liberal è abituato a portare avanti battaglie sacrosante, molto prima degli altri, il liberal col suo radar per le storture del mondo vede e individua i problemi prima degli altri e si mobilita per risolverli, per farsene carico. E’ abituato a essere un pioniere. Ha quasi sempre ragione, ma glielo riconoscono vent’anni dopo. Utilizza per esempio sacchetti biodegradabili vent’anni prima che diventino obbligatori, ma in quei vent’anni, mentre sorgevano le isole di plastica, quelli di destra hanno amato, vissuto, lavorato, si sono divertiti, per il liberal invece sono stati vent’anni di infelicità, perché quella sua convinzione d’essere dalla parte giusta (e lo è) crea un solco inemendabile tra lui e il resto della società. Chi è nel giusto, del resto, è solo. Quando ero piccolo,  oltre alle orribili mele biologiche e a km zero dell’orto che nell’intervallo barattavo con delle patatine, i miei genitori che si erano trasferiti nel piccolo paese per sfuggire allo smog della città come Patty e Walter Berglund di “Libertà”, il romanzo di Jonathan Franzen, ci imponevano un’ora al massimo di televisione al giorno, e la sera che su Canale Cinque proiettarono per la prima volta “Scuola di Polizia”, attesissimo da tutta la scolaresca, noi fummo invece trascinati a una conferenza di un guru biologico che teorizzava come lavare i piatti senza inquinare.

 

Così tra queste sofferenze io sono cresciuto cittadino migliore, con vasta sensibilità bio ed ecologica, ma certamente più infelice e asociale. Se cresci in una famiglia di sinistra generalmente vieni su di sinistra anche tu, e la vita è lastricata di sospiri (ah, perché gli altri continuano a sbagliare la raccolta differenziata; ah, perché quella parcheggia sul marciapiede). Essere di sinistra è infatti una condizione pre-politica, è saper fare le cose giuste, e non farsi influenzare dagli altri. Soffrire in solitudine. Crescere in una famiglia di sinistra è  come crescere in una piccola famiglia reale, dove ti insegnano a essere educati, tolleranti, sorridere, e perdonare, perché siete migliori e diversi dagli altri. Quindi non riuscirete mai a mischiarvi con gli altri. Altre volte il liberal può avere delle crisi di rigetto. Mio fratello per esempio, cresciuto nelle stesse condizioni ambientali, ha attraversato dei periodi di trumpismo estremo, in cui vedeva ovunque “comunisti”, noi pensavamo a una fase transitoria, e gli vogliamo bene lo stesso perché siamo di sinistra anche se viene in mente “Tutti dicono I love you”, il film di Woody Allen del 1996 in cui il figlio di una famigliola molto democratica di New York, Scott, diventa improvvisamente e ferocemente repubblicano. Legge la National Review e vuole un’America “forte e virile”, e perché no il ricorso alle armi personali. Il padre, impersonato da Alan Alda, è costernato: “Abbiamo in cantina dei baccelli repubblicani che si sono impadroniti del tuo corpo?”, gli chiede, mentre la madre, Goldie Hawn, “una democratica di sinistra col senso di colpa”, tra le sue mille iniziative umanitarie, è stravolta (si scoprirà poi che l’essere di destra di Scott è dovuto a un tumore al cervello che viene prontamente asportato, e il ragazzo tornerà quel bravo liberal che era). 

 

La vita della famigliola di sinistra richiede una dose extra di attenzioni ed energie che vengono sottratte ad altre attività. Per rifornirci di acqua per esempio non andavamo al supermercato come tutti. Dovevamo recarci invece a una fonte facendo molti chilometri in macchina per poi riempire decine di bottiglie (ovviamente di vetro), ricaricarle in macchina e poi portarle a casa. Ogni volta che bevevi un sorso d’acqua ti tornavano alla mente le pesanti casse da portare a spalla (alla fine evitavi di bere, era meglio la disidratazione). Il fatto è che mentre noi risparmiavamo plastica e proteggevamo l’ecosistema e gli oceani, in questi vent’anni Giorgia Meloni si sarà scolata milioni di bottiglie Guizza di Pet convogliando ogni energia piuttosto a diventare la prima presidente del Consiglio donna e postfascista (e chissà il grado di felicità del compagno, giornalista Mediaset, pare di sinistra). 

 

Già, la televisione. Anche l’idea di “guilty pleasure” come vedere filmacci o ascoltare canzonacce o mangiare porcate, cosa che quelli di destra fanno abitualmente, a sinistra è considerato appunto “una colpa”. Da consumare con grande moderazione e poi espiare. Così per esempio per vedere film non d’essai noi piccoli dovevamo corrompere dei membri particolarmente influenzabili della famiglia. Mio fratello repubblicano corrompeva una zia peraltro di sinistra-sinistra per farsi portare a vedere l’infilata Lo Squalo 1-2-3  al cinema (Spielberg non era molto ben accetto in casa, almeno quello più soprannaturale di E.T. per intenderci. Poi vennero le Schindler’s List e i film più impegnati e anche il regista fu sdoganato). Nella sua smania purificatrice infatti il liberal rischia di perdersi (oltre a tutto il divertimento) anche molti capolavori, ma che ci deve fare se tutto ricade sulle sue spalle? Mentre quelli di destra gozzovigliano e si godono la vita e si preparano a governare, lui deve badare a far funzionare la Costituzione, l’ambiente, il buon gusto, un po’ anche la morale pubblica. I liberal sono come gli ansiosi. Vivono una vita di inferno, la fanno vivere agli altri, ma poi nei momenti fondamentali ti salvano la vita. Non chiedeteci pure di essere felici.

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  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).