Fenomenologia di una campagna elettorale, metaverso ubriaco di se stessa

Marco Archetti

Una campagna in cui comanderà l’eterogeneità delle agende, degli intenti e delle contraddizioni tanto irresolubili da fare invidia a Walt Whitman, uno che conteneva moltitudini ma non poteva avere idea di una coalizione italiana

Dall’alba al tramonto, ovvero il sogno di una campagna elettorale quasi-lampo. Anzi, meglio: dal tramonto all’alba, ovvero il sogno di una campagna elettorale quasi-lampo e per lo più impercepita, per metà passata dormendo e addirittura sognando, sì, sognando una campagna elettorale impercepita e passata dormendo, sognando e via così, di seguito, fino alla dissoluzione del reale nell’onirico. Perché non c’è campagna elettorale abbastanza breve per essere italiana e non c’è campagna elettorale italiana da non sembrare infinita. Non c’è campagna elettorale italiana che cominci con premesse mediocri che in quarantotto ore non sembrino di colpo luminose, e tutti a chiedersi: come avevamo fatto a sottovalutarle così?

 

Penseremo con rimpianto agli occhi di tigre e al milione di alberi da piantare – sta già accadendo – perché poi sarà tutto in caduta, tutto un brancolare al buio, a tempo di record e senza nemmeno rendercene conto avremo già disceso chine e visitato scantinati, questa tendenza speleologica delle traiettorie andrebbe studiata ma è sempre stato così, un po’ normale e un po’ mostruoso, eppure l’anticlimax non si smentisce mai: chiaroscuri per cominciare, poi cerini per gradire, poi buio pesto, silenzio tombale, qualcuno che urla “dove siamo?”, un altro che “parliamo di ciò di cui dovremmo davvero parlare?”, e un’eco sterminata. Siamo all’inizio ed è già la fine? Questo incipit suona epilogo, e per carità, non siamo abituati a esigere, alle polemiche inopportune abbiamo fatto il callo, qui si urla anche quando si sussurra, uno ha anche la manica larga, però, ecco, nel giro di quindici giorni niente più maniche, e ti ritrovi in gilet a considerare col fegato marcio come ogni campagna elettorale sia il metaverso ubriaco di se stessa, per cui apri un portale e non sai cosa trovi: un videogioco folle, una tragedia cupa, una farsa del futuro, una tempesta in un ditale, la smaterializzazione, Tabacci col simbolo di chiunque, un altro portale che affaccia sul vuoto o Volturara Appula.

   
E’ una campagna elettorale già lunga, lunghissima, prevedibile e imprevista, nessuno pronto e niente a posto ma si finge, si fingerà, si va a braccio e a una vagamente disciplinata Carlona. Una campagna zeppa di plastismi ideologici, in cui, subdolamente, comanda il risaputo, in cui la vera agenda, ossia quella di quando il prossimo governo cadrà, la detta già oggi questa prevalenza del nugolo, frattaglie di copyright calendiano e sbriciolii vari di una torta fatta, in realtà, di due sole Fette – Giuliano Ferrara auspicava, da questo giornale, che presto si riconoscano vicendevolmente come tali, ma poi no, poi ci troncava le speranze. Una campagna in cui comanderà l’eterogeneità delle agende, degli intenti e delle contraddizioni tanto irresolubili da fare invidia a Walt Whitman, uno che conteneva moltitudini ma non poteva avere idea di una coalizione italiana, un campo largo, un campo esteso, un campo giusto, perché sembra già tutto sbagliato, corto, stretto, più indisciplina che intento, più cocci che brocche, e – a corredo – il consueto imperversare di gente che le feste vuol farle tutte fallire, senza grandi bellezze ma con bruttezze piccole, non disperanti, talvolta misere, insomma, le solite.

   
Saranno giorni lunghi, questi giorni brevi. Con la loro modalità melodramma, la modalità Caino e Abele, la modalità Promessificio Asimov, ma soprattutto l’inalienabile quota sparate a effetto. Perché tutti i front runner, o come vogliamo chiamarli, a un certo punto diranno quella cosa che ci farà pensare: ma perché l’ha detta? Ma non poteva tenerla per sé? Così, alla fine di questo infinito tempo di breve campagna elettorale italiana, andremo tutti a votare trascinando i piedi, con debolezza tibiale, portandoci dentro un nodo irrisolto, indigesto e minuscolo, lo spleen elettorale che ben conosciamo: quello per cui, qualsiasi partito voteremo, lo voteremo malinconicamente, esausti e blandamente contrariati, inghiottendo quel po’ di imbarazzo per averlo votato.