Giorgia Meloni e Enrico Letta ad un evento pubblico a Roma (LaPresse)

Meloni e Letta da soli all'uninominale e chissenefrega delle alleanze: un sogno preelettorale

Giuliano Ferrara

Un possibile colloquio tra i due leaderè difficile da immaginare, ma fa pensare a un paese normale, dove non si vota per coalizioni finte pronte al dissolvimento prima ancora del coagulo ma per partiti veri, e chi vince vince perché persuade e rischia

 I had a dream. Ho fatto un sogno. Più modesto di Martin Luther King, non riguarda l’integrazione razziale e l’eguaglianza degli esseri umani. Riguarda, figuratevi, la dis-integrazione di due alleanze innaturali, il centrodestra cosiddetto e il centrosinistra cosiddetto. Sto parlando delle elezioni politiche di settembre, procedura democratica da rispettare sebbene ci si arrivi in circostanze grottesche e frettolose. Dunque, qual è il problema? Il problema è che Meloni e Letta, o di qua o di là, dovrebbero stipulare un altro e diverso patto del Nazareno o connubio: si incontrano e decidono bilateralmente, perché se lo facessero unilateralmente sarebbe un offrire il collo alla presa dell’avversario, che si presenteranno da soli all’uninominale, come suggerito dal senatore Petruccioli tempo fa, per fare una campagna sulla loro specifica identità programmatica e basta, chissenefrega delle alleanze combinatorie. 

 A destra Meloni è per la Nato, con i polacchi del suo gruppo conservatore, e ha fastidio per il parrucconismo populista dei suoi alleati-rivali, Salvini e Berlusconi, vorrebbe essere legittimata a governare sul serio, nonostante quella inquietante fiammella missina. Salvini è per Putin, si sa, e per il Papeete continuo, e Berlusconi giustamente è per la presidenza del Senato, comprensibile. Ciascuno ha in mente un orizzonte diverso, irriducibile, se le cose fossero poste in giusti termini politici e non in ridicoli calcoli aritmetici, a quello degli altri. Meloni ha alle spalle anni di opposizione, gli altri si sono infilati in vari governi, che poi hanno disfatto penosamente, con maggiore o minore convinzione e portata di idee.

 Sono leadership e partiti diversissimi, incompatibili se non nelle necessità combinatorie di cui ci parlano sempre gli esperti di legge elettorale. Se vincessero in coalizione, sarebbero poi prigionieri della coalizione, e farebbero la fine di un Bisconte o di un governo Draghi, addirittura, dopo qualche mese, secondo quanto sono in molti a pensare. Perché tutti sappiamo che una gran parte dei seggi è attribuita con il proporzionale, dunque riflette le differenze al dettaglio, mentre i seggi uninominali, che certo non sono pochi e possono come si dice fare la differenza tra sconfitta e vittoria di una coalizione, sono maggioritari a un solo turno, vince chi ha più voti all’ingrosso, punto.

 Lo stesso discorso, fatte le debite differenze, vale per il centrosinistra e compagnia. Letta, il capo del Pd, vuole polarizzare il confronto, si capisce. Ma deve allearsi con Calenda, forse con Renzi, e ingurgitare in pancia una quantità di ortodossie liberal-riformiste, qualche pezzo di sinistra archeologica che Calenda gentilmente chiama “frattaglie” e derrate di idiosincrasie personali e ideologiche nella forma del veto e della rissa. Fanno vanto di incompatibilità con i grillini molti leader che li hanno promossi al governo dopo il Papeete, poi li hanno detronizzati da Palazzo Chigi e hanno appoggiato l’esecutivo Draghi con undici ministri del Bisconte.

 Su questo Letta ha chiarito, no alleanze con i crisaioli, con qualche riottosità interna a mollare il famoso campo largo. Ma per il salto della quaglia, da Conte a Calenda, Renzi (?) più gli ex di Forza Italia, più Di Maio eccetera, le cose sono complicate. C’è l’ortodossia del rigassificatore, ma vaglielo a dire a quelli di Piombino. C’è l’inceneritore di Roma, ma si perdono gli alleati della regione Lazio e una prospettiva appunto larga. C’è il rischio, pensano i bettiniani, che i grillini prendano comunque voti sufficienti a far vincere la destra o risultino, beffa colossale, l’ago della bilancia con il loro risibile mélenchonismo di riporto. Soprattutto c’è la competizione di leadership, la famosa guerra dei capi. Calenda vuole esserci, ma ha paura di essere fagocitato, e nel caso Renzi resti fuori, di dissanguarsi un poco a suo favore mentre batte le spiagge al fianco di Giggino Di Maio e Renato Brunetta.

In più vuole che l’alleanza sia un fronte draghiano, non una galassia intorno al Pd, che non stima degno di una vera guida politica per i suoi trascorsi pro contiani, e allora si candida personalmente a capo del governo nel momento in cui lo fa anche Letta con la formula del front runner. Insomma, se aggiungete le differenze di carattere e culturali, anche da questa parte è tutto un po’ opaco e troppo vario. Anche qui la garanzia che una eventuale vittoria porti a un governo solido di coalizione è difficile darla.

 Ma se Letta e Meloni si vedessero e si dicessero: “Siamo alternativi? Vogliamo la leadership di governo? Dimostriamolo andando da soli negli uninominali, e dunque riducendo conflittualità e folleggiamenti delle coalizioni. Perderemo dei seggi per la divisione del centrodestra, certo; in molti uninominali il candidato di Meloni sarà non imbattibile senza i voti coalizzati dei berlusconiani e salviniani; ma perderemo seggi anche per la divisione del centrosinistra, in molti collegi il candidato bipolarizzante di Letta non sarà imbattibile, vista la presenza di nugoli di liste dei centrosinistra che portano altrove il voto d’opinione di minoranza. Paradossalmente, assurdamente, si farà però conto pari”.  

Questo colloquio non ci sarà mai, nessuno rinuncia a piccoli vantaggi per una galoppata politica superba, con gli occhi di tigre e patriottica. Però immaginarne la possibilità fa pensare a un paese normale, dove non si vota per coalizioni finte pronte al dissolvimento prima ancora del coagulo ma per partiti veri, e chi vince vince perché persuade e rischia, e poi si allea in Parlamento con quelli che ce l’hanno fatta nel proporzionale, che sarebbe una scena politica quasi normale.

  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.