un'inchiesta

Il lavoro mobilita l'uomo. Come cambiano le città e le professioni dopo la pandemia

Michele Masneri

Da Berlino a Seregno. Accanto a trasferimenti o rientri in un’Italia di nuovo appetibile ci sono le “grandi dimissioni”, il “south working”, la “yolo economy”. E le tribù del lavoro remoto, da Milano a Ibiza

Dieci anni fa, era il 2012, quando uscì “La nuova geografia del lavoro”, fu una piccola rivoluzione. Ogni libro, per dirla con Walter Benjamin, ha la sua “èra della leggibilità”, e il  Librone di trecento pagine, edito in Italia da Mondadori, opera di Enrico Moretti, professore a Berkeley, divenne l’handbook dell’America obamiana e pre-trumpiana. La teoria era ed è affascinante: ci sono due Americhe, una tecnologica e avanzata, dove si guadagna bene e si spende tanto, e sta soprattutto sulle due coste, a San Francisco, a New York e in qualche altro posto della bolla liberal sulle due coste; e poi c’è la seconda America che è rimasta indietro, fatta di tanti posti del Midwest, i “flyover” dove si vola sopra e non ci si ferma, e soffre la disoccupazione, e vota di conseguenza. Simbolo: Detroit, la decotta capitale dell’auto.

 

Poi è arrivato Trump ed è andata com’è andata, soprattutto è arrivato il Covid e ora la guerra nel cuore dell’Europa. Intanto i lavori e il flusso delle persone che lavorano è cambiato. Rimane il concetto centrale del libro di Moretti: quello del moltiplicatore dell’innovazione, che spiega come si trasformano i posti di lavoro e le città oggi. Meno operai, più servizi attorno ai “cluster” cioè le città-grappolo dove tutte le aziende più tecnologiche si aggregano tra di loro. “Ogni volta che un lavoratore tecnologico, un ingegnere o un manager vanno a vivere in una città, producono cinque nuovi posti di lavoro che non hanno a che fare con l’innovazione ma sono lavori nel settore dei servizi”, ci disse a San Francisco nel 2017. “Sia occupazioni professionalmente qualificate (avvocati, insegnanti, infermieri) sia di occupazioni non qualificate (camerieri, parrucchieri, carpentieri). Per esempio, per ogni nuovo software designer reclutato da Twitter o da Google, a San Francisco si creano cinque nuove opportunità di lavoro per baristi, personal trainer, medici e tassisti”.

 

Era quello il momento d’oro della Silicon Valley, Google e Facebook erano imperi del Bene e non vituperati carrozzoni ruba-dati, qualcuno sognava addirittura Mark Zuckerberg alla Casa Bianca. Moretti diventò l’economista più citato e dibattuto d’America: continuamente tirato in ballo, dal Wall Street Journal al New York Times. L’ex presidente Obama lo convocò a lungo. Anche Renzi premier lo andò a incontrare.

 

La teoria era affascinante soprattutto per l’idea dei “cluster”, cioè le città-grappolo dove le aziende più tecnologiche si aggregano tra di loro. “Nella prospettiva di una città, un posto di lavoro ad alto contenuto tecnologico è molto più che un singolo posto di lavoro. L’effetto moltiplicatore esiste in quasi tutti i settori, ma in quello dell’innovazione ha dimensioni straordinarie, circa il triplo del manifatturiero. Ogni nuovo addetto del manifatturiero ‘produce’ infatti solo 1,6 altri posti di lavoro non qualificati. Ogni addetto tecnologico ne produce 5”. Dunque, la tecnologia fa bene anche a chi ne resta fuori. “Certo, basta guardare il numero di baristi a San Francisco. La cosa più interessante è che i lavoratori tecnologici fanno salire gli stipendi e i redditi anche di quelli non tecnologici: intanto perché sono molto ben pagati. Un dipendente medio di Microsoft guadagna 170 mila dollari, ciò vuol dire che tolto vitto e alloggio spenderà molti soldi in servizi locali. Il secondo motivo è che le aziende tecnologiche hanno bisogno di una serie di servizi, e questo si traduce in grafici, venditori, consulenti. Il terzo è che le imprese tecnologiche tendono a concentrarsi una accanto all’altra generando ulteriori benefici”.

 

Adesso è tutto cambiato: San Francisco, epicentro della nuova geografia del lavoro, si sta svuotando. Il Covid ha stravolto tutto e posto nuovi posti e nuove città sulla mappa globale. Alcune teorie si sono imposte: quella di Stefano Boeri, archistar globale, secondo cui ci sarebbe stata una migrazione verso i luoghi “poco densi”, cioè i borghi, le aree minori, insomma la fuga dalle città. J.D. Lance, che cantava con la sua “Elegia americana”, la spoon river della America flyover, e se ne andava grandiosamente dalla Silicon Valley per tornare sui suoi monti appalachi, dopo la celebrità e un film tratto dal suo pamphlet, oggi è diventato addirittura il candidato di Trump al seggio senatoriale del Senato.

 

Yolo economy

Intanto oggi aleggia lo spettro delle grandi dimissioni. “The great resignation”, o “great reshuffle”, come recita l’ultima temperie registrata e brandizzata negli Stati Uniti, pare uno di quei fenomeni che nascono in America o almeno lì sono bravissimi a impacchettarli, per poi rotolare a valanga sul resto del mondo. Sempre più lavoratori decidono di non esserlo più o di esserlo diversamente. Almeno 48 milioni di persone si sono licenziate nel 2021 in America, record epocale. E la metà della classe lavoratrice, dice la Cnbc, è fatta da cercatori di nuovi lavori. Il 44 per cento di chi lavora è in cerca di un nuovo lavoro. Meglio pagato, certo, ma anche diverso, più umano, più vicino a quello che si pensa essere il talento individuale. Cambiamento epocale o ennesimo cascame della “me decade”, del sestessismo? La “Yolo economy”, altro concetto un po’ facilone (da “you only live once”, si vive una volta sola) sembrerebbe collegata. L’ottimismo americano interpreta principalmente queste pulsioni profonde della società come un segno della bontà dell’economia, di quanto sia andata bene la Borsa in questi ultimi vent’anni, di quanto una intera generazione potrà andare in pensione senza problemi. Secondo le analisi degli economisti di questi giorni, sembra un addio alle armi e un saluto affettuoso a chi verrà dopo, soprattutto mentre le Borse crollano o stanno per crollare, la Fed si prepara ad alzare i tassi, insomma per dirla agnellescamente la festa è finita (‘nada vota).

 

E in Europa, e in Italia? Da noi i dati sembrerebbero andare nella stessa direzione: secondo le rilevazioni del Workmonitor  di Randstad, report sul mondo del lavoro in 34 Paesi, quasi un terzo dei lavoratori italiani (29 per cento) oggi sta cercando un nuovo ingaggio, quota che arriva al 38 per cento nella fascia tra i 25-34 anni. E un ulteriore 24 per cento sta considerando di mettersi a breve alla ricerca,  specialmente i giovani. Di sicuro il lavoro così com’è fa schifo: l’Italia è penultima tra gli aumenti di stipendio  (19 per cento), ultima per benefit (53 per cento), meno flessibile (il 60 per cento non può scegliere se fare lavoro da remoto).

 

Secondo la ricerca poi  “il lavoro è importante nella vita”, per il 77 per cento degli italiani, ma meno della metà (49 per cento) lega la sua identità a questo, e per il 60 per cento è più importante la vita personale di quella lavorativa. Più della metà se potesse non lavorerebbe proprio. Soprattutto i più giovani sono completamente disillusi: se il 36 per cento ha già abbandonato un lavoro perché non si adattava alla propria vita privata, si sale  al 51 tra i 18-34 anni. Il 38 per cento poi si licenzierebbe se il lavoro gli impedisse di godersi la vita, ma nella fascia tra 18 e 25 anni la percentuale sale a oltre la metà.

 

Ma chi sono questi lavoratori infelici, che lasciano o cambiano lavoro? Si chiede in giro, e non si trovano, a parte qualche amico che dice d’essersi stufato di fare il cuoco e di voler impiegare la laurea in giurisprudenza per trovare qualcosa che ti consenta anche una socialità. Certo c’è tutto il chiacchiericcio sulla ristorazione (L’unico settore serio in Italia, ricordiamo la massima borisiana) che non riesce mai a incrociare domanda e offerta, nell’eterna dinamica dei “padroni” troppo taccagni (secondo i dipendenti) e i dipendenti svogliati e assetati di denaro (secondo i padroni).

 

Certo c’è il noto fenomeno del south working, quello per cui si va e soprattutto si torna a casa, dopo magari faticosi trasferimenti in metropoli nordiche. Qui è difficile distinguere quella che è la realtà dal wishful thinking, dal folklore, dalla retorica del “lavorare guardando il mare”. Certo, gli esperimenti sono fascinosi. A Castelbuono, piccolo comune sulle Madonie siciliane, sono stati creati tre coworking, “frutto di un protocollo di intesa pubblico privato e della sinergia tra south worker locali e Comune in partnership con l’associazione South Working. Quest'ultima è una realtà giovane, un progetto di promozione sociale che stimola e studia il fenomeno del lavoro agile da una sede diversa da quella del datore di lavoro o dell’azienda, in particolare dal Sud Italia e dalle aree marginalizzate”, scrive il Giornale di Sicilia, “grazie a questa iniziativa, negli ultimi mesi è stato dunque possibile lavorare da remoto avendo come scenario uno dei più importanti Musei naturalistici o il castello di Castelbuono”.

 

Anche la piattaforma Vice ha dedicato al tema un video in cui intervista sei giovani, “South working, stereotipi e questione meridionale: sei persone originarie del sud Italia discutono nel dibattito di Vice”, però anche qui i contorni della questione sembrano un po’ estremi e al tempo stesso fumosi; c’è chi sostiene che nel Mezzogiorno si stava benissimo prima dell’Unità d’Italia, eccetera. Difficile capire dove sta la verità in un dibattito ad alto tasso ideologico come questo.

 

L’unico dato certo è che in Italia, al nord come al sud, se non ci sarà the big resignation di sicuro da anni assistiamo a the greatest evasion: i dati Inps confermano che quasi 13 milioni di italiani non pagano alcuna tassa, mentre solo il 4 per cento dichiara più di 70 mila euro all’anno (cioè più di 3500 euro al mese): insomma, siamo un paradiso fiscale senza saperlo, siamo una Dubai con meno palme a nostra insaputa. L’Italia è ancora più paradiso fiscale per chi viene dall’estero. Forse non tutti sanno, ma se ne saranno accorti, che molti stranieri, o italiani di ritorno, sono appunto ritornati a vivere stabilmente qui, col Covid, ma anche grazie a una tassazione molto incoraggiante. Chi si trasferisce o rientra in Italia paga una mini flat tax “tombale” di 100 mila euro l’anno per tutti i redditi prodotti all’estero. Una pacchia bestiale (secondo alcuni anche troppo generosa) che sta però facendo rientrare in Italia molti, specialmente dagli Stati Uniti, e sta ridefinendo la geografia del lavoro. Alcune città italiane stanno difatti cambiando faccia grazie all’afflusso di nuovi stranieri che decidono di viverci stabilmente e non solo per motivi fiscali, ma perché riscoperte, ritenute adatte agli standard di chi cerca un posto dove stare e lavorare.

 

Milano                                                                                                  

Dovevamo andare tutti a vivere nei borghi, nelle aree “a bassa intensità”, secondo la definizione di Boeri, e un po’ è stato così, solo che forse la teoria andava intesa in senso globale: dunque più che da Milano scappare a Laveno, da New York si scappa a Milano, considerato borgo conveniente e organizzato, dove tutto funziona, e dove tutto costa meno rispetto alle metropoli come Londra e Parigi. “Qui ci sono buone scuole, i servizi funzionano, i trasporti pure, e questo spiega l’enorme afflusso di stranieri che non sono turisti ma nuovi milanesi”, spiega al Foglio Luca Martinazzoli, direttore di Milano & Partners, forum che raduna istituzioni pubbliche e private per promuovere la città.  Del resto basta sedersi in qualunque bar del centro e anche non del certo per captare conversazioni in inglese, che non sono appunto i turisti ciabattoni che si sentono a Roma. Sono nuovi residenti spinti dalla nuova mobilità del lavoro e dalla ridefinizione dei “centri” sulla mappa della rilevanza. Nella moda per esempio, grande tradizione milanese, arrivano una serie di nuovi expat. “Arrivano soprattutto da America e Regno Unito”, dice ancora Martinazzoli, e sicuramente conta anche la Brexit. Oltre ai dati ci sono una serie di personaggi che si sono trasferiti a Milano: Nathan Van Hook, stilista alla rediviva Moncler, da Portland si è spostato a Milano (non avrà nostalgia delle lunghe piogge oregoniane); così come Gino Fasanotti, nuovo numero due del marchio dei piumini, argentino, vent’anni in Nike, che arriva direttamente da New York, dove è stato responsabile per il Nordamerica fino a poco fa. E’ il responsabile della famosa pubblicità che fece infuriare Trump, quella con Colin Kaepernick, il giocatore di football americano che nel 2016 lanciò il boicottaggio dell'inno americano, in segno di protesta contro l'ondata di violenza razziale in corso allora negli Stati Uniti. Pare che Fasanotti non abbia scelto il centro ma addirittura Monza. E se Milano pare oggi una meta ambita e scontata, meno lo è la Brianza, che pure sta avendo un imprevisto successo tra i nuovi expat. Le sue ville di delizie che già piacevano alle grandi famiglie lombarde, ai Visconti e ai Casati Stampa, oggi sorprendono i nuovi magnati. A Monza nello specifico c’è un’ottima scuola internazionale, fattore fondamentale per chi si trasferisce, specialmente per chi si trasferisce con famiglia e non soffre la povertà. Marc Goehring, ruspante stilista e creativo di 032C, piattaforma berlinese di massimo successo che è sia una linea di vestiario che una rivista, e che si posta in mutandoni e jockstraps in giro per il mondo, pare che abbia scelto Seregno come residenza. Da Berlino a Seregno, mica male.

 

Venezia

Un altro posto ancora meno scontato è Venezia. Oltre alle gran folle presenti per la Biennale Arte appena inaugurata, chi si è avventurato in città ha notato un insolito brulicare di mostre, di eventi, diversi dalla solita “costituency” veneziana. Sono stranieri o anche italiani che ci vanno ad abitare, e a fare business. Mentre riaprono musei come il Fortuny, e aprono fondazioni: Anish Kapoor ha comprato per la sua il palazzo Manfrin-Venier sul Canal Grande, all’asta da Cassa Depositi e Prestiti. La torinese Patrizia Sandretto Re Rebaudengo ha scelto l’isolotto di San Giacomo per aprire la sede veneziana della sua Fondazione, il billionaire-filantropo franco-americano Nicolas Bergrruen si è preso la Casa dei Tre Oci e palazzo Diedo per farne il centro europeo delle attività del suo Istituto losangelino. Altro che borghi: Venezia è un luogo ad altissima intensità, c’è l’alta velocità, c’è l’aeroporto, c’è anche chi ha deciso di tornarci a vivere abbandonando la Silicon Valley. E’ il caso di Simone Brunozzi, startupparo in purezza, già “tech evangelist” negli anni gloriosi di Amazon Web Services, poi fondatore di varie startup a San Francisco, venture capitalist laggiù, e adesso si è trasferito a Venezia con l'idea di aprire un suo fondo, che investirà in realtà tecnologiche non necessariamente italiane. La sua idea, Rialto Ventures, punta su “startup europee con l’idea che vorranno avere un’espansione in Italia, un posto dove anche gli stranieri vogliono vivere. Non è solo rientro dei cervelli ma anche nuova entrata di cervelli non italiani”, racconta al Foglio. Investirà su “B2B, servizi ad altre imprese, in settori che sono stati accelerati dal Covid; realtà aumentata, cyber security, intelligenza artificiale”. Certo Venezia non è la prima scelta che verrebbe in mente, con le fiumane di turisti, e i souvenir e i baicoli nei vicoli stretti. E invece sì: “Io sono italiano, mia moglie è veneziana, magari sarò parziale. Ma Venezia ha altri atout: tutti quelli che devi incontrare ci passano, è forse la città del mondo in cui la gente ci va più volentieri. Ecco perché potrebbe diventare una capitale europea del lavoro remoto. Non necessariamente hi tech. Per lavoro remoto si può considerare anche un avvocato”.

 

Insomma niente borghi. “No, perché a me non basta dire: vado in un posto che costa poco, o che ci sia la natura. A me serve che ci siano persone come me in quel posto. Se è troppo isolato, se non c’è una comunità, non funziona”. E’ insomma sempre la vecchia teoria di Moretti. “Venezia ha quella densità che serve. E’ un posto superconcentrato, dove passano tutti. E poi non basta l’intensità. Serve l’up and coming come direbbero gli americani”. Il Covid ha delineato dei trend precisi. San Francisco è in declino. Venezia è in ascesa. Milano è in ascesa. Parigi e Londra sono in leggero declino. Roma non è sulla mappa. Torino potrebbe essere ma non decolla perché non ha certi appuntamenti fissi che portano stranieri in città, come Venezia, che porta sempre come la Biennale”.

 

Bruxelles

Poi c’è il north working. Un posto che è rientrato “sulla mappa” dei nuovi expat è Bruxelles: grazie anche all’inversione di segno del suffisso “euro”. Da capitale di tutto ciò che era grigio e punitivo, prima per tutti l’Europa, adesso la capitalina belga trova una sua seconda giovinezza. Un altrove-non altrove, due aeroporti, treni per ogni città d’Europa, è al centro di un rinascimento anche tecnologico come capitale di un’Europa innovativa.

 

Secondo il Financial Times le imprese innovative globali crescono ormai più nel vecchio continente e i fondi di venture capital che vi investono confermano la teoria (per il Ft, il vecchio continente “a lungo ha avuto ciò che serve: forti università, un sacco di ingegneri, accesso a ricchi mercati di consumo. Ma l’Europa rimaneva un passo indietro: a causa di fattori culturali: mancanza di cultura del rischio, timidezza commerciale. Adesso cambierà tutto”).  E in Europa, volendo evitare la Londra sconquassata dal Brexit, o la Parigi carissima, o la Berlino  ormai ipergentrificata, perché non provare con Bruxelles. Ristoranti e bar sono pieni, aprono gallerie una dietro l’altra. “Tu m'avais manqué Bruxelles je t'aime, Bruxelles je t'aime T'es ma préférée/Bruxelles je t'aime, Bruxelles je t'aime Tu m'avais manqué T'es la plus belle, oui t'es la plus belle”, canta Angèle con questo inno pop che risuona in Europa: non sarai bella come Parigi ma mi manchi, e peccato che la luce non sia proprio quella da South Working.  

 

La città che vent’anni fa era come un romanzo di Simenon, grigiore e malinconia, però oggi è più allegra.  L’Unione Europea è improvvisamente diventata cool. La Nato con i nuovi soci giovani e carini è diventata sexy. Sventolano i cartelli “vendesi” ovunque. Si parla di “invasione francese”, invasione pacifica, dei parigini che scelgono Bruxelles come piazza per abitare e lavorare. In un’ora di treno sei nella capitale francese, in una di aereo in qualunque altra capitale europea. “Il Belgio ha una piccola scena tecnologica ma gli ultimi quattro anni hanno visto una rapida crescita  con oltre 200 startup che hanno ottenuto oltre 2,7 miliardi di euro  in investimento, dal 2018 al 2021”, scrive Jill Pretzinger su Tech.eu. Le eccellenze riguardano settori come le “biotecnologie e scienze della salute, e poi analytics, software, and fintech, specialmente B2B”. Tra le operazioni più recenti l’acquisto del 75 per cento dell’operatore telco Voo da parte di Orange Belgio, per 1,5 miliardi di euro, ma anche quello di Borsa italiana da parte di Euronext (4,4 miliardi, realizzato due anni fa). Nei primi quattro mesi del 2022, 33 compagnie hanno ricevuto finanziamenti per 440 milioni e domani ci sarà il primo Tech.eu Summit proprio nella capitale belga, aperto dal primo ministro.

 

Ibiza

Infine, per chi proprio non ce la fa a non avere il mare e la luce, e al primo posto in un’ideale classifica di implausibilità,  c’è Ibiza. Considerata generalmente come una Rimini di fascia alta, o paradiso fricchettone per chi non si vuole spingere fino a San Francisco, è ora presa d’assalto da techies e siliconvallici pentiti. “Durante il Covid Ibiza ha cambiato pelle”, dice al Foglio Alessandro Geraldini, autore romano che sta girando un documentario proprio sui nuovi expat calati nell’isola delle baleari. “Nel senso che un numero consistente di nomadi, e milionari, digitali, da un lato hanno semplicemente ‘fatto la matematica’, come mi ha detto uno di loro: invece di scappare su isole o spiagge dall’altra parte del mondo hanno pensato che Ibiza è un’isola dotata di ogni servizio, cosmopolita ai livelli di New York – i dati parlano di 147 diverse nazionalità su 157 mila residenti – ed è in mezzo al Mediterraneo. Perché non andarci a vivere? Poi si è aggiunto il ‘purpose’, la voglia di dedicarsi a qualcosa capace di dare senso alla propria vita che oltretutto sta diventando sempre di più un asset, sociale ed economico”.  “Io Ibiza la frequento più o meno da 25 anni”, dice Geraldini. “Di solito vado ospite da mia cugina, che vive a Salinas con suo marito e i loro tre figli. Era il marzo del 2021 e mi sono accorto della differenza appena arrivato. Di solito trovavo persone di ogni categoria sociale ma che stavano li essenzialmente per divertirsi, o magari erano residenti, ma perché lavoravano in settori come ristorazione o ospitalità. Stavolta ho conosciuto un’ondata di imprenditori e creativi arrivati da tutto il mondo per viverci e fare cose sostenibili, rigeneratrici, ‘conscious’. Club e feste del genere che di solito si associa a Ibiza hanno perso fascino. E siccome socialmente l’isola – a parte durante il delirio estivo – funziona a piccoli circoli ristretti, mano a mano si sono conosciuti tra loro. E hanno iniziato a parlare di progetti”.

 

L’ultima copertina di How to Spend It, il magazine del Financial Times, titola “The Rebirth of Ibiza”. Parla di nuova mecca dei “bohemian cool”, di una serietà che non c’era durante le decadi della festa, di architetti, fotografi e creativi che hanno creato un nuovo ecosistema in cui si parla di nuovi modelli di turismo, protezione delle risorse naturali, business sostenibili. “È vero, ma nel racconto manca un’altra parte ancora più ambiziosa che ho conosciuto grazie a mia cugina, ‘connettrice’ riconosciuta dell’isola. Ho iniziato a intervistarli e mi sono ritrovato con 42 storie di nuovi arrivati a volte un po’ folli ma sempre molto ben intenzionati: “nuove” scuole, cloud locali, piante medicinali, cripto-comunità di ogni genere, arte, agricoltura rigeneratrice, nuovi format di entertainment. Di queste, ho scelto 6, 7 storie. Che raccontano la ‘rebrandizzazione’ dell’isola”.

 

Il documentario si intitolerà  “Busqueda de Vision”, “il nome di un antichissimo rituale andino in voga sull’isola”, perché col Covid tutti questi nuovi expat hanno avuto una specie di visione, hanno “visto” quello che deve significare la loro vita. Stanno tutti investendo su progetti “nobili” ma in grado di generare denaro e di espandersi all’estero. “Guardano al brand Ibiza come a un trampolino di lancio e si sono integrati nell’isola a tutti gli effetti”, continua Geraldini. “C’è per esempio un imprenditore seriale di Barcellona – e-commerce e società di comunicazione con clienti come Mtv, L’ Oreal, Vueling, RedBull – che ha avuto la sua “visione” durante un intensivo di Vipassana, ha cambiato nome, e ora sta per aprire un Centro di Innovazione Sostenibile per startup facendo confluire somme che fino a ieri in questo settore erano inimmaginabili sull’isola. Una networker e imprenditrice cinese che prima accompagnava delegazioni cinesi a Davos e ora vive a Ibiza, fa cerimonie del tè per mettere in contatto persone e cerca opportunità di investimento. Un biologo marino gallese, media artist - dal Burning Man alla Sydney Opera House – creatore di un collettivo di scienziati e artisti per esplorare le nuove frontiere digitali – Epson, Intel, Samsung tra i clienti – che ora, insieme al suo socio fondatore – star del settore AI a Palo Alto e fondatore di società leader mondiali nell’analisi geospaziale – sta investendo su un progetto mastodontico di mapping e terraforming del Pianeta da collegare al sistema scolastico – orizzonte 2030, partenza da Ibiza. Di un ex banker specializzato in M&A  diventato fondamentalista dell’agricoltura rigeneratrice: sta creando un modello di business per dare il volano all’espansione e internazionalizzazione della pratica. Di un visionario digitale canadese-americano – Mtv, Showtime, fondatore di due aziende di tech immersivo con sedi dagli Usa alla Cina – è impegnato su due progetti Web 3… La lista è lunga”.

 

Insomma, nella nuovissima geografia del lavoro post-Covid, le città hanno un ruolo sempre più importante. E forse, davvero, la teoria di Boeri è giusta, ma va considerata a livello globale, non italiano: dovevamo andare tutti a vivere nei borghi,  e però borghi superconnessi e affollati, borghi che ricordano più i “clusters” di cui parlava Moretti solo dieci anni fa, quando il mondo era un posto completamente diverso.

 

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  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).