Il Foglio Weekend

Il destino degli influencer

Michele Masneri

Basta con gli umani, è l’ora dei virtuali. Piangono, soffrono, vendono, proprio come noi, e in più non si prendono il Covid. Dal Giappone agli Stati Uniti marchi e aziende investiranno sempre di più su di loro

E  se fosse per questo? E se fosse per questo che gli influencer paiono sempre più assatanati di soldi, di presenzialismo, di esserci e spalmare i loro prodotti anche oltre il necessario? Non solo tra le grandi star dell'Instagram, anche tra gli influencer minori è tutto uno spacchettare doni, mettere #adv, “metto qui una box per le domande”. E’ solo il Natale in arrivo che stressa gli influencer come e peggio di noi umani o c’è qualcosa d’altro? Secondo l'agenzia di marketing digitale Fps entro il 2022 i brand spenderanno fino a 15 miliardi di dollari l’anno sugli influencer, ma la cattiva notizia è che buona parte di questi andranno non a ingrassare dei signori e delle signore in carne ed ossa, bensì degli avatar. Negli ultimi diciotto mesi, dice sempre Fps, marchi come Puma, Prada o Calvin Klein hanno lanciato oltre 50 influencer virtuali. 
 

Rispetto agli umani, gli influencer disumani hanno dei vantaggi. Intanto non inquinano, o inquinano meno, parrebbe di capire, e qui anche il ministro della transizione ecologica Cingolani può star tranquillo (Cingolani ha infatti lanciato l’allarme nei giorni scorsi: ha detto che gli influencer contribuirebbero per il 4 per cento all’inquinamento globale, addirittura il doppio degli aerei, a causa dell’uso intensivo di web, di server, di corrente, e pare incomprensibile, inaudito, anche un po’ esagerato). Di sicuro comunque gli influencer digitali non si ammalano, non si prendono il Covid, non devono tamponarsi. “Nell’èra del distanziamento sociale, questi influencer virtuali sono emersi come una parte decisiva e innovativa di quello che definirà l’industria degli influencer nei prossimi anni”, scrive il magazine Now Fashion. “Per chi lavora nel settore, se i vantaggi erano da tempo già chiari, oggi sono evidenti.  L’aumento di popolarità degli influencer virtuali, iniziato alcuni anni fa con la creazione della diciannovenne Lil’ Miquela, è tra questi recenti sviluppi. Dal suo debutto su Instagram, la giovane attivista liberal metà brasiliana e metà spagnola ha guadagnato 2,1 milioni di follower (oggi sono oltre 3)  su Instagram e le modelle generate al computer sono diventate la tendenza vivace nel settore del marketing virale. Al giorno d’oggi, Lil’Miquela gode di un tasso di engagement vicino al 2,7 per cento, che arriva vicino a quello di  Beyoncé e Selena Gomez, e alcuni dei più famosi influencer virtuali - vale a dire Knox Frost, Noonoouri e il colonnello Sanders di KFC - hanno centinaia di migliaia, se non milioni di follower in tutto il mondo”. 

 

Imma, 351 mila follower

 

La tendenza di buttarsi sugli influencer digitali sembra particolarmente spiccata in Asia, continente dove da sempre per una serie di fattori l’approccio all’inumano è più facile. Così già Lenovo in Giappone ha assunto per pubblicizzare i suoi computer una signorina digitale, si chiama Imma, è una graziosa ragazza con capelli a caschetto, è al lavoro dal 2018, si occupa di moda, stile, tecnologia. E’ stata selezionata tra le “Donne dell’anno 2020” da Forbes Women ed è apparsa pure nella cerimonia delle Paralimpiadi di Tokyo. Imma è infatti molto impegnata, ha oltre trecentocinquantamila followers e anche Ikea l’ha assoldata, lei  trova comunque il tempo per delle campagne civili come quella per il clima. “E’ importante fermarsi un attimo e pensare. Quando mi hanno chiesto di appoggiare Climate Live Japan, un evento per combattere il riscaldamento globale, ero stupefatta da quanti giovani nel mondo sono attivi per combatterne i disastri”, ha scritto, cioè qualcuno, umano o disumano, avrà scritto per lei.


 
Ben posizionata è anche Shudu, 219 mila followers, si definisce “The World’s First Digital Supermodel”, una riedizione digitale di Naomi Campbell: ha all’attivo campagne per Ferragamo ed Ellesse. Al contrario di quanto si potrebbe pensare, queste influencer hanno sentimenti e desideri come noi, anzi, meglio di noi.  Per esempio Lil Miquela è stata protagonista di un bacio appassionato con la modella (in carne ed ossa) Bella Hadid, per una campagna Calvin Klein, mentre Imma a un certo punto si è chiesta: “è un intero mese che litigo con mio fratello. Non sapevo fosse possibile non parlarsi così a lungo. Sono tutti così complicati”, e non si sa se questo fratello esista veramente, però naturalmente ne vorremmo sapere di più, e insomma è chiaro, niente fa rimpiangere gli influencer veri e in carne ed ossa, e a questo punto uno si chiede anche quanto durerà la pacchia per le varie dinastie di influencer umani, prima fra tutti quella Ferragnez ovviamente, e in quest’ottica forse la serie tv che ci appassiona in onda su Amazon Prime Video sarà destinata presto a diventare un reperto di un “come eravamo”, pura archeologia di una fase preistorica dell'Instagram.

 

Tutta basata com’è su "far venir fuori l'umanità", essere sé stessi, dunque soprattutto il corpo: nella serie si mangia, si partorisce, ci si abbraccia, coi corpi in prima linea. Quello di Chiara che trasforma tutto in entusiasmo e lacrime (“cosa posso farci, sono emotiva”), mentre Fedez somatizza soprattutto a livello intestinale (“mi sento muovere la pancia”, e il frequente “mi scappa la cacca!”), e qui lo show ci riporta a un genere coprolalico da Ruzante, siamo davvero a un teatro povero ma nobile della migliore tradizione lombarda tra Dario Fo e Testori. Per copiare gli scarrozzanti Ferragnez un influencer virtuale necessiterà di  sceneggiatori davvero bravi a imitare il lessico famigliare ferragnesco, uno strepitoso milanenglish insubre depotenziato e bambinesco, fatto di “super”, “cute” (anche insieme, “supercute”), “sono preso bene”, “sono preso male”, anche “superbene” o “supermale” e il migliore di tutti, il plus letto “plas”, “questa sorellanza è un grande plas!”. E nei momenti di maggior patos Fedez si chiede, sul palco di Sanremo: “devo essere più cattivo o più patatone?”.  E poi: “L’orchestra ci ha blastato perché non volevamo spoilerare”.

 

Ci vorranno le migliori menti delle prossime generazioni per rendere virtualmente questo “Vedovo” edizione 2021, questo remake del film di Dino Risi che metteva in scena Alberto Sordi e Franca Valeri come una coppia nella Milano del boom formata da una lei imprenditrice di gran successo e un lui un po’ scalcagnato. E qui, c’è sempre un marito un po’ sottomesso e che suscita immediata simpatia, e invece una signora imprenditrice eccezionale e tutta d’un pezzo. Mutatis mutandis, qui “la mia Elvira” diventa “la Ferri”, e come allora non sa se far colazione “in villa o in grattacielo”, solo che qui la Torre Velasca diventa Citylife e la villa non è più in campagna con le vacche ma sul lago di Como. Come nell’originale la signora ama la campagna e il marito no, qui il drone dall'alto mostra un Fedez stranito tra capre e mucche (“ci sono pollini qui?”, chiede stranito, e una agricoltrice: eh, be’, siamo in campagna, veda lei”). 

 

Se nell’originale lui era reduce da un esaurimento nervoso, qui c’è un terapeuta di coppia (dal formidabile nome di Leone Baruh). E anche qui si capisce il progresso (e vuoi vedere che i Ferragnez sdoganando la terapia di coppia concorreranno anche a far diminuire femminicidi e maschicidi? Bisognerà tener d’occhio le statistiche). E se là Alberto Nardi (Sordi) era un disastro negli affari, sempre inseguito dai creditori, qui Fedez invece addirittura si scopre imprenditore; non c’è nessun “carissimo Lambertoni, cosa fal a Milan co sto calt” bensì lui insieme alla sua mammètta sono fior di affaristi.

 

E poi mamma Ferragni, la straordinaria Marina Di Guardo, è invece una mamma Italia aggiornata al 2021, che tira su le tre figlie – “le sisters”  - positive e ambiziose, ed esaurita la maternità adesso influenza un po’ anche lei, e scrive i suoi thriller di successo. Fedez-Nardi non sta lì a metter su un piano per sterminare la moglie, partendo da un ascensore, come nell’originale, ma soffre un po’ la di lei composita famiglia, che si sposta sempre come un sol uomo, abbracciosa e sorridente e buona forchetta, con ottimismo lombardo.  E il “sono in guerra con la vita” di Fedez è un perfetto aggiornamento di “a me m’ha rovinato ‘a guèra” sordiano: a parte l’acume per gli affari e i propositi assassini, per ora assenti, Fedez è un perfetto Nardi, talvolta anche come tempi comici. Nella villa un cameriere dice “la cena sarà servita in biblioteca”, e lui, intendendo i numerosi parenti della moglie, “ma quelli mica lo sanno che è ‘na biblioteca” (il romanesco è nostro); oppure, quando arrivano i suoi genitori in fiammante cabriolet, lui dice “che tamarri”, e il coro dei cognati risponde: “certo che tamarri detto da lui è il colmo”.  Già, i cognati, perché ci sono anche comprimari degni delle grandi maschere, i generici, e chissà che dinamiche, lì, che la serie non svela (cosa diranno, cosa penseranno, a microfoni spenti, le sorelle, e i di loro fidanzati, esposti, si immagina solo marginalmente, a tanta perfezione e a cespiti di così monetizzabile felicità?).

 

E poi la nonna di Fedez cartomante, dallo straordinario nome di nonna Ciana, che azzecca pure il piazzamento del nipote a Sanremo; una maga Auriemma (altro che House of Gucci), in quel del Giambellino, correlativo oggettivo della Milano azzurra, dei cieli limpidi su Citylife, la periferia irredimibile e ancora nebbiosa che non fa i babyshower, che pare essere lì a ricordare cos’era la Milano di Rocco e i suoi fratelli prima ancora di Gaber. Insomma, come direbbero i Ferragnez, tanta roba. E piange il cuore a pensare che forse un giorno  tutto questo scomparirà. Siamo davvero pronti? Anche perché i Ferragnez, sempre avanti, sono nei fatti la prima risposta pragmatica allo strapotere romano e borbonico nella serialità italiana. Altro che le tante proteste politiche (la Rai a Milano!), qui per la prima volta si realizza un grande intrattenimento popolare lombardo, in risposta agli Zerocalcare romani e ai Posti al Sole napoletani. Dove non riuscì la Lega di Bossi, la presidenza Moratti, Beppe Sala, son riusciti i Ferragnez. Perché alla fine il vero protagonista della serie è Milano, la Milano dai cieli finalmente azzurri, splendidamente fotografata ed emozionante nella scena finale che non a caso avviene davanti al Duomo. 
 

Già, ma allora, se arriveranno questi influencer virtuali, che succederà alla città del nuovo sogno, la Milano inclusiva che accoglie tutti a patto di avere almeno cinquemila followers? C’è infatti l'influencer della moda, quello del design, quello di cibo, quella dei locali, quello del mettere a posto gli armadi: geniali personaggi arrivati tutti dalla provincia che si sono inventati un business, accorsi come si accorreva a Hollywood. Si frequentano, si vedono, si amano (a volte si odiano). Vanno alle stesse feste, e in vacanza insieme, un po’ perché temono gli intrusi, e nuovi amici che li frequentino solo per fare incetta di followers; un po’ perché instagrammandosi tra sé il messaggio è ripreso all’infinito. Un indotto da Pnrr: location, “prime”, red carpet, affitti di villa Necchi, sponsorizzazioni, collaborazioni. Seguendo il ragionamento di Cingolani, quale sarà l’impatto degli influencer su Milano? Più o meno delle polveri sottili? Serviranno nuovi boschi verticali per abbassare la Co2 da essi prodotta? Bisognerà piantare un albero per ogni follower?

 

E la richiesta di professionisti del 3D in arrivo con gli influencer virtuali compenserà, keynesianamente, il crollo di professioni anche antiche che in questi anni erano riapparse? Fioristi che senza tregua allestiscono le più stupefacenti creazioni topiarie (e in versione natalizia, anche con alberi di natale con Led cangianti e composizioni tra renne, orsi, bianchi, grizzly, a grandezza naturale), in appartamenti comprati coi proventi di questo grande boom, anche riproponendo e riciclando il grande know how vetrinistico di questa città che ha fatto dell’allestimento la propria vocazione? E ancora: personal trainer, osteopati, truccatori, estetisti anzi make up artist, che presidiano la manutenzione di questi corpi esposti a Instagram accaventiquattro. Corpi sottoposti a fanghi, bagni, massaggi, crioterapie, maschere, eyepatch. La Milano che ha vinto il Covid si riprenderà mai dal crollo degli influencer?  

 

E cosa ne sarà di loro, gli influencer? Terrorizzati come deputati pentastellati di tornare alle origini rustiche, i più in gamba avranno già investito in beni rifugio, immobili e azioni a basso rischio o obbligazioni, o avranno messo su imprese analogiche, produzioni di magliette e mutande e libri cartacei. E che ne sarà dei più disgraziati di tutti, cioè noi, i vituperati giornalisti o, per gli influencer, giornalai, che nel frattempo per evitare l’oblio avremo cercato di trasformarci tutti in influencer, diventando mezzibusti da Instagram spiegando con stories e faccine robe anche complicate, magari superando anche timidezze e remore pur di crearci (ce piacerebbe) una community fedele che mette like e compra i nostri manufatti? Sarà stato un colossale sforzo invano, uno di quei tempismi devastanti per cui si investe tutta la fortuna di famiglia nel cinema muto proprio mentre sta arrivando il sonoro, o in azioni Nokia a pochi giorni del lancio dell’iPhone? Diventeremo tutti sceneggiatori di influencer virtuali?  Intanto il cielo di Milano per adesso continua a risplendere,  riflesso in mille stories, e nonostante le scie chimiche dei nostri influencer umani, troppo umani.

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  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).