Uno scatto dalla manifestazione stop grennwashing, all'università La Sapienza di Roma, nel 2019 (LaPresse)

L'incognita del greenwashing. Quando è solo una mano di verde

Chicco Testa

È il nuovo fenomeno da monitorare, a cui ricorrono aziende, e non solo, per acquisire credibilità e ingannare i consumatori. Tra incognite, strategie industriali e nuovi scenari geopolitici

Tutto il mondo sta diventando verde. O forse si sta solo dipingendo di verde? Greenwashing è il nuovo fenomeno da monitorare. In sostanza una bella mano di vernice su vecchi corpi e vecchie abitudini per acquisire credibilità e ingannare i consumatori. Alcuni sono tentativi ingenui e noti da tempo: l’automobile piazzata fra i cipressi toscani. Altri partoriti da menti che speculano sulla credulità come l’acqua minerale che si dichiara “contro la CO2”. Che è come dire che sei contro l’aria. Ma le cose si complicano e di molto quando sull’aspetto green vengono impostate intere strategie industriali destinate a durare nel tempo e a modificare il panorama intorno a noi. Ha fatto per esempio scalpore l’intervista del presidente della Toyota contro una crescita troppo rapida delle auto elettriche, colpevoli, secondo lui, di produrre troppa CO2 in fase di costruzione e utilizzare troppa elettricità prodotta da fonti fossili tradizionali. Toyota per altro ha conquistato una leadership mondiale nelle auto ibride con la Prius e sta investendo miliardi di dollari nell’auto elettrica.

 

Naturalmente i sostenitori dell’auto elettrica sono insorti con numeri alla mano per dimostrare il contrario. Ma la bega ha implicazioni enormi. La finanza mondiale, almeno quella occidentale, si sta orientando a tagliare i finanziamenti alle produzioni non green e l’Europa sta varando una tassonomia delle diverse attività destinata a separare il green dal non green. Dietro la quale ci sono battaglie commerciali gigantesche. Il nucleare, per esempio, completamente privo di emissioni di CO2 è green come vorrebbe la Francia, il paese al mondo con la più bassa percentuale di CO2 emessa per unità di prodotto, o invece è da mettere al bando come vorrebbero i sostenitori delle rinnovabili a tutti i costi? E le stesse rinnovabili, quando vanno a impattare su paesaggi delicati e vengono osteggiate dai cittadini? La stessa economia digitale è messa sotto accusa per le enormi quantità di energia consumata dalle foreste di server di tutto il mondo. Ogni mail che inviamo produce diversi grammi di CO2. Dopodiché, ovvio, meglio mandare una mail che spostarsi in auto, ma la stessa cosa vale per un post su FB, su Twitter o su Instagram?

 

Anime innocenti insomma non ne esistono. Caso mai vi è il rischio di inseguire mode o peggio ancora di costringere in una camicia di forza burocratica una transizione che ha bisogno invece di aperture e di molta innovazione tecnologica. Ancora più complicate le cose poi si fanno quando il greenwashing riguarda le promesse dei leader politici e degli stati. Federico Rampini per esempio cita su Repubblica il caso della Cina che mentre vende al mondo i suoi proclami e i suoi investimenti nelle rinnovabili continua a costruire centrali a carbone e ad aumentare la sua quota di emissioni annue in atmosfera. Vero. Ma con due problemi non da poco. Le emissioni di CO2 non sono solo quelle emesse ogni anno, ma soprattutto quelle accumulate in atmosfera in decenni e decenni. E lì Usa, Eu e Giappone che fanno meno del 20 per cento della popolazione mondiale pesano per più del 50 per cento. Risultato della lunga crescita industriale di più di due secoli che ha portato ricchezza e benessere. Che è esattamente la strada che sta percorrendo la Cina. E il secondo problema è che negare a Cina, India, Africa la possibilità di ricorrere ai combustibili fossili per produrre energia significherebbe condannarli a una perenne povertà energetica. Con infine un addentellato geopolitico. Se la finanza occidentale si ritira, spiana un’autostrada alla Cina, che infatti finanzia e aumenta la sua presenza in tutte queste aree.

 

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