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Verità e sensi di colpa

La fragilità dei bianchi e dei razzisti convinti di non esserlo

La Bibbia delle proteste si chiama “White Fragility”. E’ il bestseller di Robin DiAngelo che mette sotto accusa la complicità bianca, ma vacilla a uno scrutinio più approfondito. Il confronto con gli altri saggi

Non ci fosse stato l’ex consigliere per la sicurezza nazionale John Bolton, la classifica dei libri più venduti in America in questo momento sarebbe dominata da White Fragility: Why it’s so Hard for White People to Talk About Race, di Robin DiAngelo. Il libro è uscito nel 2018 ed è diventato immediatamente un best seller, ma l’imponente ondata di proteste scatenata dall’omicidio di George Floyd a Minneapolis ha rinvigorito le vendite di saggi a tema razziale, fra cui How To Be An Antiracist di Ibram X. Kendi e So You Want To Talk About Race di Ijeoma Oluo, da settimane stabilmente nella parte alta della classifica di Amazon. Il libro di DiAngelo svetta all’interno di questo canone in continuo aggiornamento, sovrastando tutti gli altri concorrenti. Il libro afferisce a un genere arciamericano a metà fra il self-help e il manuale di comportamento per una cultura corporate etica e sostenible, e in effetti l’autrice, una sociologa e ricercatrice all’università dello stato di Washington nell’ambito dei “whiteness studies”, si è dedicata con grande successo negli ultimi due decenni ai corsi aziendali, ai programmi di inclusività, all’educazione alla diversity. “White Fragility” è la Bibbia di questo presente tumultuoso, ma a differenza della scrittura non racconta una storia, offre una strategia per l’automoralizzazione.

 


L’imponente ondata di proteste scatenata dall’omicidio di George Floyd a Minneapolis ha rinvigorito le vendite di saggi a tema razziale. Il manuale è rivolto soprattutto ai bianchi progressisti, che spesso hanno buone intenzioni ma peggiorano la situazione


    

Quando sono iniziate le manifestazioni in tutta America, e da lì nel mondo intero, i clienti hanno preso a comprare in massa un libro che non si prefigge lo scopo di spiegare, approfondire o contestualizzare le tensioni razziali, il grande irrisolto della coscienza americana, ma quello più limitato e profilato di informare i bianchi che sono razzisti, anche se non se ne rendono conto o credono di essere al riparo. Anzi, sono razzisti esattamente perché non se ne rendono conto, e la dichiarata ignoranza o distanza dal problema è un’aggravante decisiva: chi si proclama estraneo al peccato collettivo del mondo bianco non si rende conto che il razzismo è una struttura, ha una dimensione sistemica, è un male implicito ereditato e interiorizzato, ma non in modo incolpevole. Il razzista che si assolve in nome della sua presunta estraneità individuale al problema è il vero e più pericoloso suprematista bianco, perché è cieco rispetto ai condizionamenti di gruppo di cui è chiaramente complice. Sono le due pericolose “ideologie” che tengono in ostaggio la sensibilità contemporanea, individualismo e oggettività, che danno sostanza alla falsa credenza secondo cui un esemplare di persona bianca possa legittimamente sottrarsi alla responsabilità imposta dai suoi tratti somatici. Chi dice “ma io non sono razzista”, oppure “non ho mai fatto nulla che possa essere considerato razzista” mostra di essere ottenebrato dalla falsa coscienza individualista o oggettivista.

  

Dunque il manuale è rivolto ai bianchi in genere, ma soprattutto ai bianchi progressisti, “che così spesso, a dispetto delle loro intenzioni coscienti, rendono la vita così difficile alle persone di colore”. “Credo che i progressisti bianchi causino i danni quotidiani peggiori alle persone di colore”, scrive DiAngelo, che include se stessa nella categoria. “Nella misura in cui crediamo di avercela fatta, mettiamo le nostre energie nel far vedere agli altri che ce l’abbiamo fatta”, scrive, aggiungendo che la categoria “consolida e perpetra il razzismo, ma la nostra posizione difensiva e le nostre presunte certezze rendono praticamente impossibile spiegare a noi stessi in che modo contribuiamo a farlo”. Sono i complici benpensanti che hanno interiorizzato la superiorità razziale il vero male, non i contadini della Carolina che sventolano la bandiera confederata, feccia minoritaria che si produce in azioni apertamente deplorevoli e spesso illegali.

  


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Con un precedimento a metà fra la maieutica, la psicoterapia e Quelo (“la risposta è dentro di te, epperò è sbagliata”), DiAngelo intende far emergere il razzismo che sarebbe sbagliato definire latente, dal momento che non c’è nulla di nascosto nella sua forza oppressiva. C’è uno specifico meccanismo che custodisce l’animosità razziale, proiettandola nella dimensione dell’odio sistemico: la fragilità bianca. Che cosa esprima esattamente il concetto di fragilità bianca è difficile a dirsi, e proprio questa sua abilità mimetica è ciò che lo rende micidiale; in generale, sotto l’ombrello concettuale sta tutto ciò che impedisce ai bianchi di ammettere il loro razzismo, radicato in un’implicita supremazia. Ad esempio, chi dice che non ha mai sviluppato sentimenti razzisti perché è cresciuto in comunità etniche omogenee è chiaramente affetto da fragilità bianca; dire di avere molti amici di colore, di non badare affatto alla pelle, di non avere pregiudizi su alcuno, di non avere opinioni sulle minoranze è in realtà il discorso tipico di chi è consumato dalla fragilità bianca; gli italo-americani che durante gli workshop aziendali spiegavano che i loro progenitori erano stati discriminati perché non erano parte della maggioranza Wasp cadevano in un’ammissione plateale della loro fragilità bianca. “White fragility” è qualunque reazione, qualunque posizione o atteggiamento possa fornire ai bianchi un pretesto per non affrontare il tema razziale. Evitarlo, resistere con il silenzio o la digressione, farsi schermo con i luoghi comuni significa essere razzisti. C’è un ampio prontuario di espressioni e frasi ricorrenti che DiAngelo, con la sua lunga esperienza, ha imparato a classificare come segni della fragilità: “Quando parlo con i bianchi di razzismo le loro risposte sono talmente prevedibili che a volta mi sento come se stessimo tutti recitando un copione”, scrive l’autrice, che conosce la fragilità perché l’ha frequentata a lungo – involontariamente, s’intende – e poi se n’è liberata in qualche modo con un percorso di ascesi che parte dall’ammissione della colpa collettiva.

 


“White Fragility” è qualunque posizione o atteggiamento che possa fornire ai bianchi un pretesto per non affrontare il tema razziale. Ma generalizzare, in questo contesto, significa partire dall’assunto che l’identità collettiva bianca è strutturalmente razzista. Nel mondo di DiAngelo si aggirano manichini in attesa di essere sistemati nel lato giusto o in quello sbagliato della storia. Il bianco razzista spiegato nel saggio non è un soggetto che può cambiare, può al massimo sottomettersi alle vittime


 

La generalizzazione è ciò che rende la struttura argomentativa di DiAngelo efficace per affermare le sue ragioni, ma allo stesso tempo logicamente debole e caricaturale dal punto di vista antropologico e culturale. Generalizzare, in questo contesto, significa partire dall’assunto che la costruzione sociale dell’identità collettiva bianca è strutturalmente, necessariamente razzista. Gli esseri umani di cui (e a cui) parla l’autrice non sono dotati di libertà personale e capacità di elaborazione individuale, quella che appare come la loro coscienza di singoli non è che il riflesso di una coscienza collettiva, non hanno quella che nel linguaggio filosofico si chiama agency, sono ingranaggi inconsapevoli di meccanismi ai quali non possono sfuggire. Non hanno idea di essere parte di tutto questo? Ecco, appunto, hanno bisogno di un consulente. DiAngelo scrive: “Quando il pregiudizio collettivo di un gruppo razziale è sostenuto dal potere dell’autorità legale e del controllo istituzionale, viene trasformato in razzismo, un sistema tentacolare che funziona indipendentemente dalle intenzioni e dalle immagini degli attori individuali”. Questa generalizzazione non è comune nemmeno fra i più accesi critici dell’oppressione razziale. Kendi, uno degli intellettuali afroamericani al centro del dibattito, certamente insiste sulla dimensione sistemica della discriminazione razziale, ma mette in guardia dalle generalizzazioni: “Estendere il comportamento di alcuni individui bianchi a tutti i bianchi è pericoloso quanto estendere le colpe delle persone di colore a tutta la razza”, scrive nel suo How To Be Antiracist. Il mondo di Kendi è abitato da persone, certamente gravate dai condizionamenti e dalle strutture di potere ereditate, ma anche dotate di ragione e libertà, mentre in quello di DiAngelo si aggirano manichini in attesa di essere sistemati nel lato giusto o in quello sbagliato della storia. Nell’implacabile struttura binaria presentata dall’autrice non ci sono sovrapposizioni fra il bene e il male, e questo si risolve, da un punto di vista pratico, in due possibili opzioni per il bianco progressista: o ammette apertamente la colpa di essere razzista, e perciò promette di mettersi su una strada di negazione di tutto ciò che aveva scambiato fino a quel momento per il “sé”; oppure cade nella fragilità bianca. Non ci sono terze ipotesi.

  

I corsi di etica aziendale e i manuali di self-help vivono di questo genere di rappresentazioni circolari, perché dire che la realtà è complicata è una leva motivazionale piuttosto debole e non si traduce in strategie per il cambiamento. Soprattutto, il concetto di fragilità bianca è disperante, non prevede possibili conversioni o resipiscenze, ma tutt’al più contempla minimi spostamenti di coscienza che forse, nel tempo, produrranno qualche timido segnale di cambiamento sistemico. Il bianco razzista spiegato da DiAngelo non è un soggetto che può cambiare, ma può al massimo sottomettersi alle vittime che ha vessato in una logica di riparazione. Del resto, se il problema fosse risolvibile con un percorso accidentato ma praticabile, il bisogno di consulenti sulla giustizia razziale verrebbe progressivamente meno, e perciò DiAngelo, agguerrita rappresentante della categoria, ci tiene a far sapere che ci sarà ancora molto bisogno di persone come lei che dicono ai dirigenti d’azienda bianchi figli del potere bianco che non c’è nulla da fare, sono intrappolati per sempre nel cul-de-sac della fragilità bianca. La visione di Kendi è più disponibile all’accadere di imprevedibili deviazioni dall’implacabile sistema di rapporti razziali: “Possiamo essere razzisti un minuto e antirazzisti il minuto dopo. Quello che diciamo sulla razza, quello che facciamo sulla razza, in ogni momento, determina ciò, non chi, siamo”, scrive. Non è questa la posizione di DiAngelo, autrice della Bibbia del momento. Il suo non è un libro, è una sentenza di condanna, e forse gli acquirenti che in massa si rivolgono alla sua saggezza chiedono di essere imputati di qualche malefatta che non sanno nemmeno di avere commesso.

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