"Che la festa cominci" di Bertrand Tavernier (1975)

“Che la festa cominci”

Maurizio Crippa

La Francia, la rivolta populista ante litteram, i gilet gialli, il rancore sociale e il Grand dèbat di Macron

Que la fête commence. L’inquadratura che chiude il film mostra una carrozza data alle fiamme, con odio, mentre una giovane contadina scandisce: “Che la festa cominci”. Bisogna fare un salto nel tempo, ma non è poi difficile, e alla carrozza che brucia si sovrappone un’automobile che brucia, una camionetta data alle fiamme: il marchio iconico della rabbia dei gilet gialli di oggi. Non bisogna spostarsi di luogo: è sempre la Francia. La Francia in una sua certa connotazione eterna, verrebbe da dire. In cui il dibattito (il Grand débat national di Macron) tra le élite e il popolo ha la tendenza sciagurata a finire in rissa, in rivolta, in teste del re mozzate in nome di una concordia impossibile. Sarà anche colpa della geografia, non soltanto della storia.

 

Bisogna fare un altro, più breve, salto nel tempo. Che la festa cominci è un vecchio film (1975) di Bertrand Tavernier. E’ ambientato nel 1719 (fanno giusto 300 anni tondi) quattro anni dopo la morte del Re Sole, durante la Reggenza di Filippo d’Orléans: Luigi XV era bambino e sarebbe stato incoronato solo nel 1722. Il suo bisnonno aveva lasciato una Francia assai malmessa, alla sua morte si narra che in molti borghi e città i francesi esultassero, al funerale la plebaglia insultò il feretro. Eppure era il Re Sole. Filippo d’Orléans era un cinico e un dissoluto, come prevedevano i tempi, non esattamente un rampollo dell’Ena. Ma era tutt’altro che stupido e disinformato, carezzava forse idee riformiste. Di certo conosceva la condizione del paese, provò pure a diminuire le tasse, a dare una strizzata a quanti si arricchivano alle spalle della corona e della borghesia, anche se assistette impotente alla grande bancarotta delle obbligazioni vendute per accaparrarsi le terre della Louisiana. Inoltre, era oltremodo preoccupato per le notizie di insurrezioni popolari o nobiliari nelle regioni lontane. Il suo compagno di dissolutezze e miscredenze abate Dubois, suo fidato consigliere, lo sapeva bene e ci inventava sopra possibili o immaginari complotti, al solo scopo di rendersi importante ed essere prima o poi nominato arcivescovo. Ma soprattutto, il Reggente che pure vedeva la situazione generale se ne stava chiuso a Versailles, dedito alle orge e preda dei pettegolezzi di una corte cialtrona, parodia della élite di pari del re che avrebbe dovuto invece essere. E in questa impotenza irresoluta si vanificava ogni velleità di governo.

 

Il film di Tavernier non torna in mente per un accesso di furore cinefilo. Il regista, oggi 77enne, era intervistato giorni fa sul Figaro, per altre faccende, ma ovviamente il suo film forse più celebre veniva citato. Così come è stato evocato, in Francia, più di una volta in questi tempi di gilet gialli e di automobili date alle fiamme. Significa che quel vecchio racconto, con il suo titolo minaccioso e profetico, è sedimentato nella coscienza nazionale, almeno in quella degli intellò. Vinse quattro César, è un bel film (lo si può trovare in streaming) anche se imparagonabile con un capolavoro sul Settecento europeo, curiosamente uscito nello stesso anno, come Barry Lyndon. Ma non è tanto per le qualità cinematografiche che i francesi se ne ricordano. E’ per quel suo ritratto tra il desolato e il disincantato, così politicamente attuale, di una Francia che dopo gli splendori si andava avvitando su se stessa: con i potentati locali che rialzavano la testa dopo la morte del roi-état, con una classe dirigente disastrosa, i territori impoveriti, un popolino sempre più ridotto (indotto) alla disperazione e pronto a cominciare la festa. Anche se all’Ottantanove mancheranno ancora 70 anni.

 

E’ l’immagine, certamente parecchio ideologicamente forzata – del resto il film rispecchia gli anni 70 del Novecento, il bersaglio polemico erano le lotte operaie e la rivoluzione comunista, non certo la rivolta individualista-populista e anti europeista dei gilet gialli – di un paese diviso, in cui i mezzi di comunicazione fisica dati alle fiamme sono il simbolo di mezzi di comunicazione tra classi sociali, tra governo e paese, che non funzionano.

 

Ma il personaggio che maggiormente accentua la somiglianza con l’oggi è un altro, il marchese di Pontcallec. E’ un cialtrone picaresco, o un populista ante litteram, che trama per sobillare il popolo alla rivolta e proclamare una improbabile “repubblica di Bretagna”. Ovviamente con il fantomatico aiuto delle Potenze straniere. Poncallec è un rivoluzionario senza credibilità, un separatista visionario e senza visione, non capisce niente di politica: crede che il Reggente possa pure dargli retta, e finirà male. Ma è un bretone, non un parigino, e intuisce benissimo qual è il punto debole della Francia: che il popolo è sempre più incazzato, mentre l’immagine dei “ricchi” che vede riflessa dai palazzi si trasforma nell’oggetto di un rancore sociale indicibile ma sempre più forte. In un’alba livida, la carrozza del Reggente lanciata al galoppo travolge alcuni contadini. Un bambino muore. Sua sorella dà fuoco al rottame abbandonato e grida: “Che la festa cominci”. Urge un “Grand débat”.

Di più su questi argomenti:
  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"