L'eterna fascinazione per la nobiltà
In gloria di Daniela Del Secco D’Aragona e di chiunque si sia inventato la vita. In pratica, un po’ tutti
Il mondo in cui Christie’s New York sta per mettere all’asta il ritratto di un ipotetico “Edmond de Belamy” dipinto da un algoritmo, cioè da un’intelligenza artificiale, è lo stesso mondo in cui, una domenica pomeriggio, sintonizzandosi su una rete televisiva nazionale italiana, ci si può imbattere in un gruppo di gente che discute sulla correttezza o meno di una ex estetista di farsi chiamare col nome di marchesa del Secco d’Aragona. Il fatto che, ufficialmente, queste due realtà appartengano alla stessa cultura di matrice eurocentrista e dibattano su una questione identitaria sta a dimostrare che a qualcuno viene spacciata moneta buona, cioè materia per riflettere e capire il mondo che cambia, e ad altri argomenti talmente superati da non costituire campo di interesse nemmeno per gli storici del costume.
Perfino il governo italiano attualmente in carica, ed è tutto dire, si interroga sulla possibilità di ciascuno di scegliere la propria identità oltre al genere sessuale con cui è stato messo al mondo, e in televisione ci si accapiglia su una povera crista che per vendere creme di bellezza ha registrato il marchio “marchesa d’Aragona” e si fa scattare i servizi fotografici nei saloni aviti del simpatico Giuseppe Ferrajoli a piazza Colonna? Ditemi: da quanto tempo non leggete un articolo sulla nobiltà o sui cosiddetti modi aristocratici? Non ne scrive uno da decenni, credo, nemmeno Capital, che pure sui blasoni ha costruito la propria fortuna nei primi anni Ottanta, quando nacque per rispondere alle esigenze pratiche di chi voleva smettere di portare l’eskimo ma non sapeva come indossare il tight. E invece, se domenica scorsa aveste ascoltato il dibattito, definiamolo così per comodità, andato in onda a “Domenica Live” sulla titolarità o meno di tale marchesa Daniela Del Secco d’Aragona di chiamarsi così, sareste stati improvvisamente catapultati indietro di trent’anni.
Il fatto che a dibattere sulla presunta nobildonna, attualmente reclusa nella casa del “Grande Fratello” e dunque impossibilitata a difendersi, fossero una socialite in disarmo e qualche non precisato ma nerboruto opinionista, temo contribuisse molto a questa esibizione di arretratezza culturale spacciata come intrattenimento a masse che, a giudicare dall’andamento dei social media e al loro utilizzo, sembrano aver superato, perfino loro, queste faccende da un pezzo. Messo in chiaro che chiunque, in televisione e credo anche al di fuori della sua narrazione per caratteri drammatici e figure da commedia, sa perfettamente che Daniela Del Secco non è affatto nobile, basta guardarla muoversi o parlare per capire che vive nella sceneggiatura del conte Max, e leggere la storia della “gens Secco che discende da Augustolo”, scritta in corsivo sul suo sito, è a dir poco esilarante, forse varrebbe la pena di soffermarsi sul fatto che chiunque di noi, prima di postare il selfie della cena con gli amici di ieri sera, vi ha applicato come minimo due filtri, mutando dunque la propria apparenza e intervenendo, anche se in modo blando, sulla propria identità. Adattando il proprio sé ideale a quello reale.
A “Domenica Live” va in onda il dibattito, per così dire, sulla presunta nobildonna attualmente reclusa nella casa del “Grande Fratello”
Cinque secoli fa, mascherarsi era consentito solo a Carnevale, e farlo in altre occasioni, sostituendo la propria identità con quella di un altro, fosse pure un altro fittizio, comportava multe salatissime nel migliore dei casi; in genere, la pubblica gogna. L’Ottocento dell’ascesa borghese si interrogava sulla liceità di certi avventurieri di farsi largo nella vita con un guardaroba preso in prestito e tre smorfie affettate, ma iniziava a trovarli divertenti, ad accoglierli nei propri salotti e a farne oggetto di letteratura. Per tutto il Novecento abbiamo idolatrato tipi come Lawrence d’Arabia, Mata Hari e Lev Nussimbaum, l’ebreo che si finse principe musulmano fregando anche Hitler, chiunque di noi ama flirtare con la propria vita, nascondendo le storie più imbarazzanti e portando alla ribalta i pezzi migliori dell’argenteria di famiglia e stiamo ancora qui a dibattere su Daniela Del Secco con la D maiuscola o meno? Nelle università americane chiedere il sesso di appartenenza a un possibile, futuro studente è diventata violazione della privacy e Canale 5 imbastisce una puntata su una donna che ha modellato il proprio personaggio sui libri di buone maniere del secolo scorso e la vedova allegra di Franz Léhar? Ma per piacere.
In un’intervista rilasciata pochi giorni fa al New York Times, il direttore creativo di Gucci, Alessandro Michele, un uomo che non vive a Cupertino ma nel centro di Roma “per non perdere il contatto con la realtà”, cioè con le buche e le scale mobili della metropolitana gestita dall’amministrazione Raggi ma anche con il primo Osservatorio italiano sull’Intelligenza artificiale inaugurato lo scorso luglio, raccontava le sue riflessioni sulla “natura attuale dell’identità” e la sua applicazione nell’arte e nei comportamenti sociali, di cui l’abbigliamento è parte ed espressione. “La vita è diventata un laboratorio”, ha osservato. “Nel passato, eri quello che la natura (e la società) avevano deciso per te. Adesso puoi manipolare tutto. E’ qualcosa che fa paura, ma è anche un territorio interessante da esplorare. Puoi vivere vite diverse, decidere che cosa essere”, adattarlo all’idea che hai di te in quella fase della tua vita.
Salvini fa dirette Facebook in milanese, ma fino a tre anni fa accoglieva in piazza gli esponenti più a destra della nobiltà nera
Pensare di ridurre una riflessione come questa, che invita a una presa di coscienza dell’evoluzione in corso sull’identità del singolo a livello mondiale, all’intervista dolente e partecipata, occhietti sbarrati e tono compassionevole, al trans che tenta di farsi operare contro il volere della famiglia, con la madre in collegamento in grembiule da cucina e l’eloquio smozzicato “e signora ci dica che cosa ha provato quando suo figlio le ha detto che voleva farsi donna”, è il genere di risposta che fino a oggi ha dato quella certa tv del dolore e del rancore, guardona e stracciona, di cui “Domenica Live” si è fatta interprete da molto tempo, e che appunto imbastisce un dibattito di un pomeriggio su una donna che fino a oggi è campata affermando la necessità di cambiare cinque vestiti e cinque profumi al giorno rispondendo a un’autorialità televisiva che, sempre a corto di personaggi per reggere la sfida di un’audience via via più residuale, fino a oggi ne ha sfruttato le mise anni Cinquanta e il birignao di princisbecco con totale cinismo.
Detto questo, volendo ribaltare la questione, sarebbe interessante capire come mai l’ondata populista non riesca a soffocare l’eterna fascinazione per la nobiltà, per il blasone. Dall’entrata in vigore della Costituzione “più bella del mondo”, i titoli sono decaduti e privi di ogni effetto giuridico. A Roma abito nel palazzo di proprietà di un gentile signore sessantenne al quale i negozianti di piazza Farnese si rivolgono con il tono deferente di “signor marchese”, riducendo immancabilmente la voce a un sussurro ossequioso mentre gli porgono il giornale o lo sfilatino. Il vicepremier Matteo Salvini fa dirette facebook in milanese, ma fino a tre anni fa accoglieva e comunicava con orgoglio, alle manifestazioni di piazza, gli esponenti più a destra della nobiltà nera, come “Sua Eccellenza il Principe Lillio Sforza Marescotti Ruspoli di Cerveteri”, capofila della nobiltà romana papalina, amico personale di Jean Marie Le Pen, già candidatosi con la Lega alle elezioni europee del 2007, il conte Fulvio Moneta Caglio de Suvich Bribir (già dirigente di Alleanza Nazionale), il Conte Alessandro Romei Longhena (nipote di Papa Paolo VI), il Conte Ezra Foscari Widmann Rezzonico (discendente dai Dogi di Venezia) e naturalmente il “Barone nero” Roberto Jonghi Lavarini von Urnavas che, proditorio, dichiarava: “La vera aristocrazia non è solo feste e fronzoli ma storico impegno patriottico in difesa del proprio popolo e del proprio territorio di appartenenza”. Ciàpa sü e porta a cà, come direbbe Salvini.
Cinque secoli fa, sostituire la propria identità con quella di un altro comportava multe salatissime e in genere la pubblica gogna
La nobiltà vera è quella che la domenica trovi in mantello e cappuccio dell’ordine di appartenenza appoggiato sulle spalle a messa in certe chiese che nel resto della settimana non vengono mai aperte e che in quella occasione trasudano umidità e odore di muffa. Sono perlopiù giovani, spesso molto bellini, circondati da tanti figli, dicono cose antiche e senza senso perché viaggiano poco e quando lo fanno cercano informazioni nei posti sbagliati, cioè nei circoli a cui appartengono i loro genitori; nei rari casi in cui studi internazionali e ascendenze di ampie vedute li hanno resi un po’ più partecipi delle cose del mondo, sono perlopiù degli originali che ostentano arie da poveracci, un po’ come il duca Alessandro Lante della Rovere di cui si innamorò Marina Punturieri, un’altra che si inventò felicemente la vita come la nostra Daniela Del Secco a cui, pare, fu lei stessa a consigliare l’aggiunta della benemerenza d’Aragona a quel cognome plebeo ma promettente. I nobili finti assomigliano invece e proprio a lei, “la Dani adorata”, e sono decisamente più numerosi.
Secondo la legge italiana, che pure li ha fatti decadere, i titoli nobiliari non solo non possono essere né comprati né venduti, si trasmettono infatti solo per discendenza, ma per sfoggiare una coroncina basta pagare: un calcolo fatto da un esperto di araldica un paio di anni fa stimava che ventimila persone all’anno mettano in pratica ogni genere di stratagemmi per sentirsi scorrere nelle vene sangue blu, ricercare affannosamente “l’ultimo attacco” all’albero genealogico, come Calogero Sedara, per sentirsi contiguo al principe Ruspoli che ama Salvini e alla sua simpatica moglie ex attrice.
L’Italia populista è ancora talmente suddita e ambiziosa di nobiltà da non esitare, all’occorrenza, a dichiararsi discendenti dei “nobili della scaletta”, come vennero perfidamente ribattezzati, dai titolati di lunga ascendenza, i borghesi resi tali il 13 giugno 1946 dal re Umberto II di Savoia pochi attimi prima di imbarcarsi per il Portogallo. Ne conosciamo tutti qualcuno, soprattutto fra chi frequenta il mondo dei banchieri. Gente simpatica, innocua, con il debole del titolo come le star di Hollywood che, al pari delle ereditiere dell’acciaio, venivano in Europa a comprarsi un titolo come avrebbero fatto con un ranch e una collezione di Coco Chanel. Gloria Swanson, per un certo periodo, fu marchesa de la Falaise de la Coudraye, la stessa famiglia in cui stava crescendo la musa di Yves Saint Laurent, Loulou de la Falaise. Poi, capito l’andazzo, lo mollò con le sue cravatte e le sue mani bucate per tornare a Los Angeles. “Sotto sotto, siamo tutti un po’ nobili”, come osservava compiaciuto Alberto Sordi nel ruolo dell’incorruttibile vigile Otello Celletti.
Nell’Italia repubblicana i titoli sono decaduti, ma nemmeno l’ondata populista riesce a soffocare l’eterna fascinazione per la nobiltà
Di recente, nella seduzione della coroncina è caduto anche uno dei difensori di Annamaria Franzoni, Enrico Manfredi, una sorta di Dani Del Secco del foro, ovviamente con qualche responsabilità in più, e non solo di immagine. Come ha stabilito la Cassazione, per anni si era attribuito i titoli di una storica casata piemontese, come ovvio estinta, i Manfredi d’Angrogna Luserna von Staufen, falsificando atti di nascita, di matrimonio, di morte, registri all’Archivio di stato. Poi, preso dall’entusiasmo e dall’autoconvincimento, nessun fantasista riesce a evitare di cadere vittima delle proprie fantasie, era corso alla società di araldica per farsi riconoscere il titolo e iscriversi finalmente all’albo della nobiltà italiana. Che, trovandolo di certo meno divertente della marchesa Del Secco con i suoi chignon, l’ha denunciato. Non si sa come l’abbia presa il suo mentore, Carlo Taormina, principe del foro.