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diplomatici della domenica

Che pena il nostro ceto accademico, appiattito sugli slogan studenteschi

Tommaso Tuppini

Dal Sessantotto in poi, non esiste causa sbagliata che gli studenti italiani non abbiano abbracciato con entusiasmo. E la mozione di condanna a Israele del senato dell’Università di Bologna ne è l’ennesima (per nulla sorprendente) prova. Ma in Europa non è dappertutto così

Il ruolo e la salute di una classe accademica si misurano dalla capacità di guidare gli studenti piuttosto che lasciarsene passivamente guidare; dalla forza con cui sa confrontarsi, anche duramente, con loro, anziché cedere supinamente a ogni capriccio. Nella nostra cultura unanimista e mammista, ci siamo convinti che studenti e professori debbano andare d’accordo su tutto, combattere le stesse battaglie e attaccare gli stessi bersagli polemici. Ma poiché i professori sono vecchi (età media: cinquantun anni) e la loro prima preoccupazione è salvaguardare una carriera lunga e difficile, a prendere l’iniziativa sono sempre gli studenti, che hanno gioco facile nel trascinarsi appresso gli stanchi e impauriti maestri. I quali non riescono neppure a essere “cattivi”, e si limitano a fare i notai degli umori del momento.

Dal Sessantotto in poi, non esiste causa sbagliata che gli studenti italiani non abbiano abbracciato con entusiasmo. La mozione di condanna a Israele del senato dell’Università di Bologna è l’ennesima, per nulla sorprendente, prova dell’appiattimento di un ceto accademico in stato confusionale sugli slogan di ragazzi che hanno scritto più blog di quanti libri abbiano letto. Tra le altre cose, il documento chiede un vaglio dei programmi di cooperazione con le università israeliane, accusate implicitamente di connivenza con “il genocidio in relazione ai membri della comunità palestinese nella striscia di Gaza” (citazione virgolettata di una risoluzione Onu, perché manca il coraggio delle proprie parole). Il proclama, dal quale sono magicamente scomparsi i crimini di Hamas e le responsabilità dell’Iran, riduce il conflitto a una “escalation militare israeliana”.

 

         

 

I toni da diplomatici della domenica (“violazione del diritto internazionale”) e svarioni imbarazzanti (qualcuno dovrebbe spiegare a quei boni viri dei senatori che Israele non pratica nessun “apartheid”) hanno trasformato l’ateneo nell’ennesimo balcone della propaganda antisraeliana e antioccidentale (nel linguaggio della senatoria mala bestia: “spazio critico e decoloniale”) dal quale si affaccia una squadra di occhialuti Tafazzi. A Bologna e in Italia, vecchi e giovani che sperimentano ogni giorno la disfatta di un’università ormai ridotta a gigantesca macchina procedurale e burocratica, ritrovano un qualche palpito di vita solo per dare addosso a Israele e simpatizzare con i suoi nemici, che sono anche i nostri, come protocristiani che fanno il tifo per i leoni dell’arena.

Fortunatamente, in Europa non è dappertutto così. La recente presa di posizione della Conferenza dei rettori tedeschi, che ha respinto qualsiasi forma di boicottaggio verso le università israeliane, mostra che esistono ancora accademici con un barlume di consapevolezza storica e geopolitica. Forse è tempo che i professori italiani ritrovino la smarrita lucidità, un minimo sindacale di audacia e il senso delle proprie responsabilità, prima che la loro irrilevanza culturale e pedagogica diventi definitiva.
 

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