tra i banchi

Universitari che non sanno più scrivere. Uno studio

Antonio Gurrado

Se la divinità diventa baluardo è ora di pensare ai problemi della scuola. A proposito del progetto Univers-Ita

Stavo pensando a una ricerca i cui risultati avevo appena letto su Repubblica quando, durante un’interrogazione, ho sentito un liceale dirmi: “La divinità diventa baluardo”. Riavutomi all’improvviso, ho indagato per capire baluardo di cosa, baluardo per chi, e soprattutto se il malcapitato sapesse cosa volesse dire “baluardo” (lo ignorava), salvo poi rendermi conto che quella parola buttata lì a casaccio per far bella figura mi restituiva in concreto il senso e la radice della ricerca su cui meditavo.

Si tratta del progetto Univers-Ita, coordinato da Nicola Grandi, ordinario di Linguistica generale a Bologna. Esaminando un campione non enorme di universitari italiani, poco più di duemila, ma spalmato su quarantacinque atenei, i dati dimostrano che la gran parte non sa scrivere, cioè mette in fila nel giro di una pagina word mediamente venti errori, che siano di grammatica, di punteggiatura o di forma – come sa qualsiasi accademico si sia visto indirizzare una mail solenne che però esordiva con “Salve”. Ne sono usciti, a quanto pare, mostruosi stream of consciousness che inanellavano solecismi, alternando il tono macchinoso del verbale di un brigadiere a quello confidenziale di un Whatsapp al medico di base.

Colpa della scuola, mi sono detto: la scuola che dovrebbe consegnare all’università studenti fatti e finiti ma che evidentemente diploma analfabeti funzionali; la scuola dove la divinità diventa baluardo poiché agli studenti viene insegnato a parlare, e soprattutto a scrivere, in scuolese. Trattasi di una lingua immaginaria, che pervade la legislazione in materia d’istruzione, le circolari (dal ministero ai coordinatori dei consigli di classe), le orripilanti linee guida di didattica e pedagogia; lingua ostica e artificiosa, che bada al suono anziché al senso, e che trasmette agli alunni la certezza che non conti usare parole comprensibili a sé e ad altri, bensì riprodurre per quanto riescono un profluvio altisonante che svetti autorevole come un castello di cartapesta. 

Univers-Ita ha esaminato il campione anche quanto a capacità di lettura. Ne è sortito che oltre metà degli universitari, tolti i manuali per gli esami, legge meno di cinque libri all’anno, e molti di loro non ne leggono nessuno. Specie in area sanitaria e scientifica, certo, ma anche fra gli studenti di area umanistica: siamo dunque al paradosso di laureandi in Lettere o in Filosofia, branche del sapere la cui esistenza dipende storicamente dalla circolazione di libri, che rifiutano l’idea di leggerne uno a meno di esservi costretti dalle minacce del professore o dalla guida dello studente.

Anche qui, colpa della scuola: la scuola che impone la lettura come compito, e mai come distrazione o evasione, trasmettendo l’idea che sia una maledizione con cui scendere a patti per mera funzionalità (un po’ come quando gli studenti, letta una cosa sul manuale, alzano la manina per domandare: “Ma questo lo dobbiamo sapere?”). La scuola che aderisce a innumerevoli campagne in favore della lettura, benemerite per carità, salvo ruotare tutte attorno al sottotesto che leggere sia finalizzato solo all’apprendimento e al miglioramento. Vengono così spedite all’università caterve di diplomati, spesso idiots savants forti di bei voti, convinti che si possa essere buoni medici o buoni ingegneri senza aver letto Pascal, Kafka, Seneca o Achille Campanile. Si può, hanno ragione, ma non sanno cosa si perdono.

C’è infine un piccolo dettaglio, un effetto collaterale, che questo studio denuncia implicitamente. Da ogni parte si continua a ripetere che in Italia ci sono troppo pochi laureati: ad esempio, i trentenni col pezzo di carta si attestano attorno al 27 per cento, quattordici punti percentuali in meno rispetto alla media Ue. Se però si dà per assodato il presupposto che i laureati debbano essere in grado di leggere e scrivere, la verità è che probabilmente ce ne sono troppi. Ecco, questo pensavo tornando ad ascoltare un nuovo interrogato dirmi che, durante il fascismo, le opposizioni si ritirarono ad Avellino.

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