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Anche a scuola

Il problema del quiet quitting giovanile, una sorta di apatia nei confronti della vita

 Mario Leone

Il fenomeno non è circoscritto ai soli docenti, ma riguarda anche gli studenti e proprio per questo non può essere archiviato in maniera semplicistica, con luoghi comuni sulla professione di chi insegna, sulle carenze dei discenti o addossando le colpe al sistema

Un sondaggio del gennaio 2022, effettuato tra i membri della National Education Association, ha rivelato che il 55 per cento degli educatori stava valutando di lasciare il proprio posto di lavoro. Inizialmente, non si è dato eccessivo peso alla cosa, salvo poi farne i conti alcuni mesi più tardi.  Il dato si inserisce nel fenomeno, molto più vasto, della Great Resignation: l’abbandono del proprio lavoro da parte di un numero crescente della popolazione. E’ una delle conseguenze del Covid, ora si è estesa anche al mondo dell’educazione.  

 

A settembre, all’inizio di un nuovo anno scolastico, il New York Times ha intervistato circa cinquanta educatori di venti diversi stati. Ne è venuto fuori un quadro desolante che vede in atto un esodo di massa degli insegnanti. Mancano anche autisti di scuolabus, collaboratori scolastici e segretari. Spesso i docenti che rimangono sono costretti a una montagna di lavoro per coprire i posti vacanti, arrivando anche a effettuare la pulizia dei pavimenti durante una giornata lavorativa che può sfiorare le tredici ore. Per stessa ammissione degli intervistati, sarebbe riduttivo spiegare tutto parlando del Covid o delle problematiche studentesche. Molti degli educatori non usano giri di parole: è il fallimento del sistema educativo americano che già da molti anni si sta sgretolando. Si denuncia una politica miope che ha investito sempre meno in istruzione, ha abbandonato gli insegnanti durante il Covid e ora raccoglie i frutti di questo disinteresse. 

 

In Italia l’abbandono è poco diffuso nel comparto scuola (soprattutto statale) dove il docente è intoccabile e permangono tanti diritti e pochi doveri. C’è anche la possibilità che il “posto fisso” faccia da deterrente alla tentazione di mollare tutto. Nelle nostre scuole è molto più presente il quiet quitting, cioè lo svolgimento del lavoro strettamente necessario e nelle sole ore lavorative. Una sorta di “minimo indispensabile” che non comporti ulteriori responsabilità, carichi o straordinari. Il fenomeno, descritto sulle colonne del Foglio da Ludovica Taurisano, non è circoscritto ai soli docenti, ma riguarda anche gli studenti; proprio per questo non può essere archiviato in maniera semplicistica, con luoghi comuni sulla professione docente, sulle carenze dei discenti o addossando le colpe al sistema. 

 

In un articolo su Education Week, firmato da Elizabeth Heubeck, si chiariscono meglio i contorni della questione. Durante la pandemia, il lavoro a distanza ha favorito, anche nel modo della scuola, una reperibilità ventiquattro ore su ventiquattro. Genitori che cercavano colloqui a qualsiasi ora e in qualsiasi giorno, riunioni virtuali di durata imprecisata, etc. Per non parlare del crescente numero di corsi e webinar da seguire online. Una sorta d’invasione della sfera privata, una perenne reperibilità ormai insopportabile. 

Con le dovute differenze, anche gli studenti della generazione Z sono dentro il vortice del quiet quitting. Una serie di testimonianze raccolte dal Wall Street Journal descrive un mondo studentesco che non vuole beghe e si approccia agli studi superiori o al mondo del lavoro meno preparato e desideroso di superare i carichi di lavoro. Il quiet quitting dei giovani, come spiega una lettera del quotidiano newyorchese, è una sorta di apatia generale nei confronti della vita che trova come sua massima espressione il silenzioso allontanamento da possibili imprevisti e responsabilità. A completare il quadro, giunge il rapporto pubblicato dall’Unicef sulla condizione degli adolescenti in occasione della Giornata italiana dell’infanzia e dell’adolescenza. Un ragazzo su sette soffre di disturbi legati alla salute mentale. Ogni undici minuti un ragazzo nel mondo si toglie la vita. Il suicidio è la quinta causa di morte dei giovani (la seconda in Europa), una sorta di licenziamento dalla vita per l’incapacità di reggere l’imprevedibilità delle cose. Servono insegnanti, oltre che adulti, capaci di non scappare. Ce ne sono e su di loro la scuola deve puntare.

 

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