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un auspicio

Doveri, responsabilità, imprevedibilità, libertà. Il glossario della scuola

Sergio Belardinelli

Nei programmi dei partiti ci sono tante buone intenzioni, ma visti i trascorsi, è difficile fidarsi e pensare che le promesse date verranno poi mantenute. Chi si occupa di politica si è dimenticato il valore reale dei luoghi dell'istruzione

I programmi elettorali di pressoché tutti i partiti dedicano un’attenzione speciale alla scuola. Eppure, al di là delle loro buone intenzioni, non riesco a pensare che stiano facendo sul serio. Ho come l’impressione che si tratti di un atto dovuto, un’esibizione di consapevolezza di quanto la scuola sia fondamentale, specialmente oggi, ma senza alcuna autentica determinazione ad arginarne il declino. Magari sbaglio; magari siamo davvero a una svolta; magari la burocratizzazione, la sindacalizzazione, l’ideologizzazione, l’indifferenza al vero significato dell’educare che l’hanno fatta da padroni in questi ultimi cinquant’anni sono davvero prossimi a finire. Ma temo che non sia così.

 

Sullo sfondo vedo infatti problemi che si sono fatti marcire per troppo tempo. Ne elenco alcuni: la differenza sempre più marcata tra scuole dove si insegna e si impara seriamente e scuole dove non lo si fa, a tutto danno di un numero sempre più alto di alunni e studenti che faticano a scrivere in un italiano minimamente decente, a comprendere un testo o a risolvere elementari operazioni di aritmetica; la sottovalutazione dell’importanza delle cosiddette scuole professionali; gli stipendi indecorosi degli insegnanti, stabiliti senza alcun riferimento al merito, mettendo i bravi e i meno bravi sullo stesso identico piano; il precariato diffuso; il persistente problema della scuola pubblica identificata con la scuola statale; la mancanza di adeguati supporti digitali, particolarmente drammatica quando si è costretti alla didattica a distanza; la difficoltà ad arginare il fenomeno terribile degli abbandoni scolastici; e si potrebbe continuare. 

 

Con diverse accentuazioni, questi problemi sono presenti all’incirca in tutti i programmi elettorali dei partiti italiani, ma ciò nonostante, lo ripeto, dubito assai che sia prossima una loro soluzione. Le ragioni di questa mia diffidenza hanno a che fare certo con l’esperienza poco edificante degli ultimi decenni, ma soprattutto con la cultura che in gran parte ha generato i suddetti problemi e che continua a essere radicata nella classe intellettuale e politica del nostro paese; una cultura, lo dico un po’ bruscamente, caratterizzata da pulsioni ideologiche profondamente ostili nei confronti della libertà (libertà degli insegnanti, delle famiglie e degli stessi alunni), che alla lunga ha finito per occultare e quasi per rimuovere la domanda stessa circa il significato dell’educazione.

 

A tal proposito, dai tempi in cui la scuola doveva servire a eliminare le differenze di classe (molti dei problemi della scuola italiana sono incominciati allora, ma non sono stati certamente i tempi peggiori), abbiamo sentito dire di tutto: la scuola deve servire a formare buoni cittadini, deve servire al mondo del lavoro, all’inclusione, al patriottismo, alla solidarietà, alla tutela dell’ambiente e ultimamente anche all’uguaglianza di genere: tutti effetti che al più potremmo considerare come effetti collaterali di una buona pratica educativa, ma non certo come suoi obiettivi primari diretti.

 

In ogni caso poco si è detto o scritto sulla qualità della scuola e sulla sua fondamentale gratuità (prima si impara a scrivere bene e fare di conto e poi ci si accorge che scrivere bene e fare di conto è anche utilissimo, non viceversa); poco si è detto o scritto sulla competenza e la passione (mia zia avrebbe detto l’amore) che servono per educare o sulle virtù che sono intrinseche a ogni pratica educativa: l’onestà, la disciplina, il rispetto, la solidarietà e via di seguito. Per non dire delle tante formule pedagogiche (apprendere ad apprendere, distinzione tra contenuti e competenze, eccetera), della farraginosità dei programmi didattici e dei metodi di valutazione con i quali in questi anni si è appesantito e burocratizzato il mestiere dell’insegnante.

 

Lo dico con una battuta e senza alcuna nostalgia per la scuola di una volta, ma credo che abbiamo dimenticato la principale finalità di ogni pratica educativa: aiutare i nuovi venuti a trovare la loro strada, a sentirsi a casa nel mondo che tutti abitiamo e a diventare semplicemente ciò che siamo: uomini, persone libere, la cui irripetibile unicità si esprime sempre in un tessuto di relazioni costitutive che reclamano anche i nostri doveri e la nostra responsabilità.

 

Doveri e responsabilità che in primo luogo sono asimmetrici, visto che un conto sono quelli che ha l’insegnante nei confronti dell’allievo, altro conto quelli che ha l’allievo nei confronti dell’insegnante, e in secondo luogo sono imprevedibili, visto che nessuno può determinare a priori l’esito di una relazione educativa dove si incontrano sempre due persone, l’insegnante e l’allievo. Doveri, responsabilità, imprevedibilità e libertà: queste le parole sulle quali bisognerebbe insistere un po’ di più allorché si parla di educazione. 

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