Quattro tabù da infrangere per evitare alla scuola il declino

Francesco Luccisano e Marco Campione

Mobilità dei docenti che alimenta il precariato, valutazione dei presidi, contratti. E una struttura che ha dimenticato la centralità dello studente

Tanto rumore per nulla? Mai come in questo biennio pandemico si è parlato di scuola. Abbiamo ripetuto a memoria il ritornello della scuola come strumento di eguaglianza. Abbiamo snocciolato il rosario della preoccupazione per il crollo dei test Invalsi. Ci siamo scontrati su riorganizzazione in salsa europea del calendario scolastico e green pass più o meno obbligatorio. Ma il cuore della questione scuola resta intangibile, racchiuso da un guscio di ideologia e pregiudizi. Abbiamo provato a riassumerlo in quattro tabù che, se non avremo il coraggio di toccare, ci condanneranno al declino.

 
Mobilità

Gli insegnanti italiani cambiano troppo spesso scuola. Ma non lo si può dire, tantomeno impedirlo. Ogni tentativo di limitarne la mobilità, rendendola simile a quella di ogni altro dipendente pubblico, è stato finora inefficace perché non è mai andato al cuore del problema. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti: didattica spezzettata tra un supplente e l’altro, danni agli apprendimenti, mortificazione di talenti, spreco di denaro. Un caso specifico ma emblematico è quello degli studenti con disabilità: secondo un dossier di Tuttoscuola, l’Italia spende per i docenti di sostegno quasi 8 miliardi di euro l’anno e quasi due terzi degli studenti con disabilità cambia il docente ogni anno.

 
Perché la mobilità è un tabù? Perché alimenta il precariato (ogni docente che si sposta viene sostituito, il sostituto non sarà mai valutato e chiederà prima o poi di essere stabilizzato ope legis), perché consente di prendere servizio lontano da casa “tanto è solo per un anno”, perché affrontarlo implicherebbe mettere un faro sulle inefficienze del sistema. Il circolo vizioso della mobilità è un disastro per gli studenti, un’umiliazione per gli aspiranti insegnanti, un mercato per chi ne approfitta. Un precario avrebbe bisogno di formazione iniziale, affiancamento da parte di colleghi esperti, formazione sul campo. Il sistema si è invece organizzato per dargli aiuto nelle intricatissime graduatorie per le supplenze, corsi che servono solo per “fare punti” e salire in queste graduatorie, uffici legali senza scrupoli che boicottano i concorsi con ricorsi di massa. Chi offre questi tre servizi, ha trovato la gallina dalle uova d’oro.

 
Che fare? Uniformare le regole per la mobilità dei docenti a quelle di tutta la Pa, fare concorsi a livello di scuola o reti di scuole, introdurre (sul modello della provincia di Trento) il periodo di prova per i docenti precari.

 
Carriera

Gli insegnanti neoassunti italiani guadagnano mediamente quanto i loro colleghi europei. Ma già a metà carriera sono tra i meno pagati in Europa e al momento della pensione il gap arriva a circa 10 mila euro lordi annui. Nessuno, però, pronuncia la parola magica che cambierebbe le cose: carriere. Ogni proposta di far crescere in responsabilità e in retribuzione una parte del corpo docente sulla base del merito, delle responsabilità assunte, della permanenza in contesti difficili, si infrange contro il solito leit motiv: la scuola non è un’azienda, la competizione rovinerebbe l’armonia della comunità, le gratifiche al massimo le decidiamo in contrattazione scuola per scuola. Risultato? Fare l’insegnante è una scelta poco appetibile per i giovani laureati, la scuola non attrae i migliori talenti. Non solo: senza “quadri intermedi” tra dirigente scolastico e insegnanti, la governance delle scuole è più difficile e la capacità di una scuola di essere al passo con i tempi – formando i suoi docenti, dialogando con il territorio, progettando percorsi innovativi – è fortemente indebolita.

 
Che fare? Facile: il contrario di quello che si fa oggi. I percorsi di valorizzazione professionale non devono essere né contrattati di anno in anno, né a pioggia. L’obiettivo è quello di passare dal riconoscimento informale delle diverse funzioni che operano in ogni scuola, a quello formale. Il Pnrr sembrava andare in questa direzione, temiamo che quel treno sia stato indirizzato su un binario morto.

 
Valutazione

Abbiamo tutte le informazioni che servono per migliorare la scuola. Non le usiamo. Aprite il sito “Scuola In chiaro” del ministero e cercate una scuola qualsiasi. Ci troverete di tutto: il numero di laboratori, l’età media degli insegnanti, lo scostamento dai risultati Invalsi di quella regione, il numero di ragazzi che cambiano scuola durante l’anno, il numero di alunni per classi, il turn-over dei docenti…

 
Grazie al lavoro silenzioso di una parte del mondo della scuola, oggi disponiamo di un’infinità di dati per aiutare le famiglie a scegliere, e per spingere ogni istituto a migliorare. Ma non lo facciamo: i presidi non sono valutati (e pagati) per come muovono in meglio gli indicatori più rilevanti della propria scuola. Il ministero dispone di un numero di ispettori ridicolo (meno di 200 in pianta organica, in servizio poche decine). E le famiglie scelgono ancora sulla base del passaparola, ignorando ad esempio che spesso le differenze maggiori non sono tra le scuole, ma tra le classi. I finanziamenti non premiano le scuole che migliorano di più, né rafforzano quelle più in sofferenza. L’allergia alla valutazione ci consegna una scuola senza strumenti e senza direzione, in cui il successo formativo è interamente dipendente dalla buona volontà del suo personale. E quindi, se la guardiamo dal punto di vista dello studente, dalla buona sorte.

 
Che fare? Valutazione dei presidi, che incida sulla loro carriera; progressivo incremento del corpo ispettivo che lo porti in 5 anni almeno a 1.000 unità; piani di miglioramento per le scuole più vulnerabili.

 
Autonomia (e parità)

Autonomia e parità vanno insieme non solo perché sono figlie della stessa stagione riformatrice, quella che si è compiuta nella seconda metà degli anni Novanta e che trae la sua fonte di ispirazione dalla Conferenza sulla scuola organizzata nel 1990 dall’allora ministro Mattarella. Le leggi che introducono l’autonomia e la parità tra il 1997 e il 2000 si ponevano in forte discontinuità con la visione prevalente sia nelle forze che venivano dalla tradizione comunista che in quelle figlie di quella democratico-cristiana: una visione che tende a sovrapporre Repubblica e Stato. Autonomia e parità rompono quello schema, ben radicato anche nella prassi delle burocrazie ministeriali, e sanciscono che “scuola della Repubblica” e “scuola di Stato” non sono affatto sinonimi.

  
Per abbattere questo tabù è necessario rilanciare: dal concetto di autonomia scolastica (il focus è sull’organizzazione) si passi a quello di scuole autonome (il focus è sulle organizzazioni); si valorizzino le scuole come luogo delle autonomie (degli studenti, dei docenti, dei dirigenti e delle scuole stesse); si torni all’impianto della Conferenza del 1990. Sabino Cassese in quella sede disse: “Non si può attribuire a una comunità scolastica autonomia didattica se non le si concede in qualche misura autonomia di organizzazione, di destinazione delle risorse e anche di ricerca di risorse finanziarie, di scelta del personale”. Per strada si sono perse la scelta del personale e la ricerca autonoma di risorse finanziarie. 
L’autonomia e la parità scolastiche non vanno trattate come una delle tante possibili modalità di organizzare l’amministrazione del sistema di istruzione, ma come la condizione per realizzare fino in fondo una scuola dove al centro sono i bambini e i ragazzi.

  
E veniamo così all’ultimo tabù, quello trasversale a tutti gli altri: gli studenti. E’ un tabù un po’ diverso perché si nasconde – come la lettera di Edgar Allan Poe – molto bene in vista. Tutti si riempiono la bocca della centralità dello studente, ma niente nella scuola è organizzato attorno alle sue esigenze. La classe, l’orario, il calendario, la lezione, la valutazione, la bocciatura (come per gli altri aspetti ai quali abbiamo accennato in questo articolo) sono tutte costruzioni degli adulti volte a favorire una razionale gestione del tempo e dei tempi, dello spazio e degli spazi, degli adulti: siano essi il professore, il preside o il provveditore. Ribaltiamo questa prospettiva, e forse anche gli altri tabù verranno giù come un castello di carte. 

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