Recovery e università. Una proposta sulle borse di studio

Andrea Ichino e Daniele Terlizzese

Come migliorare l’offerta formativa? Restituire parte del sostegno economico ricevuto, una volta finito il percorso di studi, può essere un modo per avere risorse da investire nelle generazioni a venire

Il meglio è nemico del bene. Ma se dietro al meglio ci fosse un progetto chiaro e fattibile, perché non provarci? Le iniziative per l’università del Piano nazionale di ripresa e resilienza sollecitano questa domanda. Il Pnrr si propone di “favorire l’accesso all’università […] e rafforzare gli strumenti di orientamento nella scelta del percorso universitario”. A tal fine, investe 500 milioni per borse di studio; altri 250 per dare agli studenti delle superiori informazioni sull’offerta didattica nelle università e per colmare i gap nelle competenze di base richieste. A questi investimenti associa una piattaforma digitale con informazioni circa l’offerta formativa terziaria; una riforma delle classi di laurea triennali, che dia flessibilità agli ordinamenti didattici per fare spazio a competenze multidisciplinari, soprattutto digitali e ambientali. Tutto bene. Ma si può fare meglio?

 

Cominciamo dalle borse di studio. Perché non prevedere che, quando possibile, siano restituite? Gli studenti che, sostenuti da una borsa, abbiano ottenuto una laurea, potrebbero versare per un certo numero di anni una frazione del reddito guadagnato, consentendo così l’erogazione di altre borse: per esempio, potrebbero restituire il 10% del reddito che eccede 15.000 euro netti annui. Se il reddito non fosse mai superiore a 15.000 euro, il contributo inizialmente ricevuto non verrebbe restituito, e saremmo quindi nella situazione prevista dal Pnrr; se superasse solo di poco i 15.000 euro, i rimborsi sarebbero limitati (200 euro all’anno per un reddito di 17.000 euro) e in questo caso, alla fine della vita lavorativa, la borsa verrebbe almeno parzialmente restituita. Ma per quale motivo lo Stato non dovrebbe richiedere al laureato che consegua un buon reddito, grazie alla borsa, di restituirla interamente con modalità che si adattino a quanto guadagna e che quindi non rappresentino mai un carico insostenibile? In questo modo i 500 milioni previsti dal Pnrr potrebbero essere, almeno in parte, usati nuovamente per le generazioni a venire

 

E’ possibile migliorare ulteriormente? Noi pensiamo di sì, e nel 2013 abbiamo formulato (in “Facoltà di scelta”, Rizzoli) una proposta per portare più risorse alle università senza gravare sul bilancio pubblico, per migliorare la loro offerta formativa e favorire l’accesso a un’istruzione superiore di qualità dei capaci e meritevoli – come richiesto dalla Costituzione. Per ottenere questi risultati è necessario scollegare le scelte degli studenti dal vincolo delle risorse familiari e indurli a un comportamento selettivo ed esigente nel decidere dove e che cosa studiare, in modo da rafforzare l’incentivo degli atenei a migliorarsi. 

 

Prendendo spunto da quella proposta, se le borse fossero “restituibili” quando il reddito dei loro fruitori lo consentisse, le risorse necessarie per finanziarle non sarebbero più limitate dallo spazio ritagliato nel bilancio pubblico. Le borse diventerebbero equivalenti a un prestito, sia pure con la modalità di rimborso legata al reddito sopra descritta, e quindi il loro numero e ammontare troverebbe un limite solo nella disponibilità di chi è disposto a prestare. Questa, a sua volta, dipende dalla remunerazione del prestito e dal rischio di insolvenza, che può essere abbattuto con un fondo di garanzia. Ed è qui che, eventualmente, si può immaginare un contributo pubblico, ma è preferibile che siano le università stesse a fornire la garanzia, perché esse hanno la possibilità di ridurre il rischio di insolvenza migliorando la qualità della loro offerta didattica: essere responsabilizzate per la garanzia darebbe loro un potente incentivo a offrire il miglior insegnamento. 


Devono però essere messe in grado di farlo: attraendo più risorse da chi le frequenta, con rette non più limitate dalla legge ma commisurate a quanto necessario per un’offerta formativa di qualità; potendo assumere i docenti più bravi, pagandoli adeguatamente senza il vincolo delle tabelle ministeriali; avendo l’autonomia per costruire il percorso didattico più appropriato, libere dal letto di Procuste dei Cfu – una delle riforme previste nel Pnrr va già in questa direzione. E saranno gli studenti stessi, con le loro scelte a premiare gli atenei che avranno saputo migliorarsi maggiormente. Lo Stato può favorire questo processo mettendo in rete non solo le informazioni sull’offerta didattica, come previsto nel Pnrr, ma soprattutto quelle sugli esiti lavorativi dopo la laurea. 


Si può cogliere l’occasione del Pnrr per avviare questa sperimentazione lasciando che ci provino gli atenei che vorranno farlo, dando loro finalmente una vera autonomia valutata dalle scelte degli studenti. 

Di più su questi argomenti: