Foto Rob Ireton via Flickr

I professori picchiati sono la prova che la scuola italiana è malata di inclusione

Antonio Gurrado

L’unica cosa che un docente può fare in casi simili è sperare che un alunno delinquente se ne vada di propria spontanea volontà, mentre l’istituto ha il dovere di richiamarlo a sé fino a che non avrà sedici anni

Vale per l’istruzione come per la politica in generale: non bisognerebbe mai prendere provvedimenti sull’onda della reazione emotiva ai fatti di cronaca. Non si può tuttavia fare a meno di notare come, nelle ultime settimane, i titoli abbiano spesso riferito episodi legati dal comune denominatore di atti di violenza su insegnanti. L’ultimo caso è quello della scuola media “Murialdo” di Foggia, dove il vicepreside ha rimediato trenta giorni di prognosi dopo essere stato preso a pugni sulla testa e sull’addome dal genitore di un alunno rimproverato il giorno prima perché, spingendo mentre era in fila, rischiava di far ruzzolare altri studenti. Le cronache riportano il surreale dettaglio che il genitore si era presentato senza avere previamente richiesto un colloquio col docente. Avevano invece chiesto appuntamento i genitori di un alunno della scuola media di Casteller di Paese, provincia di Treviso, prima di prendere a sberle un insegnante reo di avere rimproverato il figlio che non voleva uscire dall’aula durante l’intervallo. Questo accadeva a fine dicembre. A gennaio, nel siracusano, un alunno di una scuola di Avola è stato rimproverato dal professore di educazione fisica e ha telefonato seduta stante ai genitori, che di lì a poco si sono parati dinanzi all’insegnante rompendogli una costola. A febbraio il caso più celebre: l’insegnante dell’Istituto tecnico commerciale “Bachelet” di Santa Maria a Vico, presso Caserta, che è stata accoltellata da un alunno sedicenne perché gli aveva offerto l’opportunità di venire interrogato per recuperare un’insufficienza.

 

Quando si verificano tanti eventi di natura simile a distanza ravvicinata, è facile consolarsi lasciandosi andare a generiche accuse nei confronti della società (che tanto non esiste), rimpiangere i tempi in cui gli studenti erano impeccabili (mai successo) e, soprattutto, dedurre che questi fatti siano in qualche maniera collegati. Non è così. Si tratta di eventi capitati nei luoghi più disparati d’Italia e che non costituiscono certo una novità: la pacifica Sardegna era stata scossa dal caso di uno sciopero indetto dagli studenti dell’Istituto tecnico “Marconi” di Cagliari perché uno di loro aveva alzato le mani contro un professore, sei anni fa. Prendere atto che simili episodi di violenza sugli insegnanti accadono da tempo e possono accadere ovunque è il primo passo verso il trattarli come ciò che sono: singoli reati commessi da individui responsabili delle proprie azioni in un sistema scolastico che – è impopolare dirlo – nella sua immane complessità e capillarità è generalmente ben funzionante. Nel momento in cui si capisce che non si tratta di un’improvvisa epidemia, si può provare a non affrontare questi casi con una reazione istintiva e retorica, volta a tranquillizzare i più suggestionabili fra i famelici lettori delle pagine di cronaca o fra gli spettatori onnivori della tv pomeridiana.

 

L’emergenza è sempre una cattiva consigliera e impedisce di ragionare su più vasta scala. Vista dall’alto, la scuola italiana è malata di inclusione, come era risultato lampante dal caso dell’alunno quindicenne dell’Istituto comprensivo “Galilei” di Mirandola che a novembre aveva lanciato il cestino dei rifiuti in faccia a una sua professoressa: con sconforto la preside dell’Istituto aveva dovuto ammettere che la massima pena che si poteva comminare al giovane, per quanto recidivo, era una sospensione temporanea in ragione della legge sull’obbligo scolastico, che impedisce l’espulsione del colpevole sotto una certa età. Per certi versi, l’unica cosa che un docente può fare in casi simili è sperare che un alunno delinquente non venga più a scuola di propria spontanea volontà, mentre l’istituto ha il dovere di richiamarlo a sé fino a che non avrà sedici anni. L’obbligo scolastico è un’illusione derivata da una tendenza, a tratti morbosa, a illudersi che l’istruzione sia in grado di elevare chiunque; a credere, insomma, che l’ambiente scolastico goda di un influsso miracoloso su persone che in altre circostanze se ne sarebbero ben tenute alla larga e, quindi, possa beneficiare l’intera società (che continua a non esistere).

 

Ora, i fatti dicono il contrario. Se l’obbligo scolastico avesse un effetto migliorativo sulla nazione, di generazione in generazione i casi di delinquenza più o meno conclamata entro le mura scolastiche sarebbero diminuiti anziché aumentare. D’altro canto, le infinite iniziative estranee all’attività didattica cui la scuola sottopone gli studenti, allo scopo di elevarli creando in loro una coscienza a tappe forzate, suggeriscono l’idea che il centro focale dell’istruzione sia il perseguimento di un astratto bene e non la trasmissione del sapere. Da ciò deriva uno svilimento del ruolo degli insegnanti. Sia perché, perseguendo ciecamente l’inclusione, la scuola lascia dedurre che i docenti debbano sopportare pazientemente anziché mettere le proprie competenze al servizio di una selezione esclusiva anche drastica, se necessario: è risaputo che cento bravi ragazzi avranno un influsso meno decisivo sul centunesimo di quanto possa averne un solo teppistello su tutti gli altri. Sia perché la scuola si fa carico del dovere di essere buona anche con chi la maltratta, e di esporre i corpi dei professori alle percosse degli stessi alunni (o dei genitori da loro sobillati) che la scuola stessa implorerà per anni di non andare via, porgendo l’altra guancia. Ma le guance sono solo due, e prima o poi dovrebbero finire.

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