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cattivi scienziati

Celebrare la vastità dell'universo, con la giusta prospettiva

Enrico Bucci

Galileo ci tolse dal centro del cosmo, Darwin da quello della creazione. Hubble, un secolo fa, ha mostrato che quella galassia in cui la Terra è un insignificante puntino periferico, è a sua volta un piccolo punto di luce in una immensità incommensurabile per i sensi umani. Perché questo fa la scienza: allarga i nostri orizzonti

Il 30 dicembre 1924 segna uno spartiacque perché in quel momento diventa pubblica, all’interno della comunità astronomica, una conclusione che da lì in poi non potrà più essere rimessa in discussione: la Via Lattea non esaurisce l’universo osservabile. Esistono altri sistemi stellari, comparabili al nostro per dimensioni e struttura, collocati a distanze enormemente superiori a quelle interne alla Galassia. Oggi questa affermazione appare quasi banale; nel 1924 non lo era affatto, a causa dei limiti della misura astronomica di inizio Novecento.

Per capire perché quella data conta, occorre ricordare che fino ai primi anni Venti le cosiddette “nebulose a spirale” erano oggetti ambigui. Alcuni astronomi le consideravano condensazioni di gas o sistemi stellari immersi nella Via Lattea; altri ipotizzavano che fossero “universi-isola”, cioè galassie indipendenti. Il famoso dibattito Shapley–Curtis del 1920 aveva reso evidente che mancava l’elemento decisivo: una misura affidabile della distanza. Senza una distanza, ogni interpretazione restava sospesa.

Il problema centrale era quindi la costruzione di una scala cosmica delle distanze. Per misurare quanto è lontano un oggetto occorre conoscere la sua luminosità intrinseca e confrontarla con quella osservata. Questo principio elementare richiede però oggetti di riferimento appropriati. Il passo decisivo era stato compiuto qualche anno prima da Henrietta Swan Leavitt, studiando stelle variabili nella Piccola Nube di Magellano. Leavitt aveva mostrato che, per le Cefeidi, esiste una relazione rigorosa fra il periodo di variazione della luminosità e la luminosità assoluta della stella. Una volta calibrata, questa relazione trasforma una stella variabile in un vero e proprio metro cosmico.

La calibrazione di quel metro e il suo uso sistematico furono sviluppati da Harlow Shapley, che applicò le Cefeidi e gli ammassi globulari per stimare la struttura e le dimensioni della Via Lattea. Il quadro che ne risultò era già molto più ampio di quanto si pensasse in precedenza, ma restava aperta la questione delle nebulose a spirale. Il salto ulteriore richiedeva strumenti più potenti.

Qui entra in scena Edwin Hubble e il telescopio Hooker da 100 pollici del Monte Wilson, all’epoca il più grande riflettore operativo. Con quell’apertura diventava possibile risolvere singole stelle in alcune nebulose a spirale e seguirne il comportamento nel tempo su lastre fotografiche successive. Tra il 1923 e il 1924 Hubble identificò in Galassia di Andromeda alcune stelle variabili che presentavano le caratteristiche tipiche delle Cefeidi.

Il procedimento che portò alla conclusione fu interamente quantitativo. Hubble misurò la variazione di luminosità di queste stelle su una serie di lastre, ne determinò il periodo di pulsazione e, usando la relazione periodo–luminosità, ricavò la loro luminosità assoluta. Dal confronto con la luminosità apparente ottenne la distanza. Il valore risultante era dell’ordine di centinaia di migliaia di parsec, molto al di là delle dimensioni plausibili della Via Lattea, anche assumendo le stime più generose disponibili all’epoca.

Questo singolo numero rendeva insostenibile l’idea che Andromeda fosse un oggetto interno alla nostra Galassia. Andromeda risultava essere un sistema stellare autonomo, collocato ben oltre i confini galattici. Poiché Andromeda era morfologicamente simile ad altre nebulose a spirale, la conclusione si estendeva naturalmente anche a queste: l’universo conteneva molte galassie.

La comunicazione di questi risultati avvenne proprio alla fine del 1924, in un contesto accademico di fine anno, e venne seguita nel 1925 dalla pubblicazione formale del lavoro sulle Cefeidi nelle nebulose a spirale. Nel giro di pochi mesi, ciò che era stato per decenni oggetto di discussione diventò parte stabile della letteratura scientifica. Nel 1926 Hubble consolidò ulteriormente il quadro, trattando esplicitamente le nebulose extragalattiche come una popolazione distinta e classificabile.

A distanza di 101 anni, vale la pena soffermarsi sul significato profondo di quella scoperta. Non si trattò di aggiungere un nuovo oggetto all’elenco del cielo, ma di cambiare l’ordine di grandezza dell’universo conosciuto. Il cielo non era più una struttura dominata da una singola galassia con qualche appendice periferica, ma un insieme popolato da innumerevoli sistemi stellari. Questo ampliamento di scala preparò il terreno a tutto ciò che sarebbe venuto subito dopo, dall’idea di un universo in espansione alla cosmologia moderna.

Galileo ci tolse dal centro del cosmo; Darwin da quello della creazione. Hubble, un secolo fa, ha mostrato che quella galassia in cui la Terra è un insignificante puntino periferico, è a sua volta un piccolo punto di luce in una vasta immensità incommensurabile per i sensi umani. Perché questo fa la scienza: allarga i nostri orizzonti, talvolta a scale inimmaginabili.

Auguri, caro lettore, e che il 2026 possa servire a noi tutti a rimettere le cose nella giusta prospettiva, quella che Hubble e la scienza ci hanno mostrato.

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