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Cattivi scienziati

Non sono stati gli allevamenti ad alimentare l'influenza aviaria in Nord America, ma gli uccelli migratori

Enrico Bucci

Secondo uno studio pubblicato su Nature, le aziende agricole non sono il serbatoio da cui il virus si diffonde al mondo. Il nuovo H5N1 si è insediato soprattutto nelle anatre e nelle oche migratrici, e lì trova una combinazione ideale di numeri, movimento e ricambio generazionale per continuare a circolare

Chi ha davvero alimentato la grande ondata di influenza aviaria H5N1 che, dal 2021 in poi, ha attraversato il Nord America? Viene spontaneo rispondere che siano stati gli allevamenti di polli e tacchini, le grandi aziende avicole con milioni di animali stipati nei capannoni, magari con misure di sicurezza non sempre impeccabili. È una risposta comoda, perché ripete uno schema che abbiamo già visto: nella crisi del 2014-2015, un’altra variante di virus aviario altamente patogeno era entrata in pochi allevamenti, si era diffusa da azienda ad azienda e se n’era andata quando si era riusciti a eliminare in massa gli animali infetti. Il virus, allora, non si era mai radicato davvero negli uccelli selvatici; era rimasto prigioniero del mondo agricolo, e lì era stato spento.

 

Questa volta, però, la storia è diversa, e i dati non permettono di continuare a raccontarla nello stesso modo. Un lavoro appena pubblicato su Nature parte da questa differenza sospetta: il nuovo virus H5N1 continua a riapparire, colpisce non solo polli e tacchini, ma decine di specie selvatiche, uccelli marini, rapaci, gabbiani, perfino mammiferi come volpi, foche e orsi. Le ondate si ripetono per anni e non si esauriscono nonostante l’abbattimento di milioni di animali da allevamento. È chiaro che qualcosa è cambiato, ma per capire che cosa bisogna abbandonare l’idea rassicurante di un contagio confinato ai capannoni e guardare alla scala del continente.

 

Gli autori partono dal ricostruire l’albero genealogico del virus. Ogni particella virale che si replica accumula piccoli cambiamenti nel proprio materiale genetico. Se si confrontano le sequenze genetiche di molti virus, prelevati in luoghi e tempi diversi, si può risalire a chi è “parente” di chi, e in che ordine. È come avere un enorme albero genealogico, in cui i rami più antichi stanno al centro e quelli più recenti alle estremità. Gli autori hanno raccolto quasi duemila sequenze del gene che codifica per l’emagglutinina, la proteina di superficie che il virus usa per entrare nelle cellule, e le hanno organizzate in un unico grande albero evolutivo. Poi, sull’albero, hanno scritto informazioni che di solito vediamo solo nelle statistiche: da quale animale proveniva quel campione, in che Paese, in quale periodo, se l’ospite era un uccello selvatico o un animale d’allevamento, di quale gruppo faceva parte. Hanno distinto le anatre, le oche e i cigni, che in biologia vengono raggruppati sotto il nome di Anseriformi; le galline e i tacchini, i Galliformi; i gabbiani e gli uccelli di riva; i passeriformi, cioè i piccoli uccelli come corvi e passeri; i rapaci; i mammiferi. Hanno anche segnato, per ogni uccello, se si trattava di una specie migratrice, che ogni anno percorre migliaia di chilometri, di una specie solo parzialmente migratrice, o di una specie sedentaria, che non si allontana molto dall’area in cui vive.

 

Un altro elemento essenziale è la geografia delle migrazioni. In Nord America gli uccelli non si spostano in modo uniforme: seguono grandi corridoi, chiamati “flyways”, che sono direttrici di migrazione che collegano nord e sud del continente. Ci sono quattro grandi flyways: Atlantico, Mississippi, Centrale e Pacifico. Un’anatra che nidifica nel Canada nord-orientale e sverna negli Stati Uniti lungo la costa atlantica si muove quasi sempre dentro lo stesso corridoio; un’oca che dal Midwest vola verso il Texas o il Messico usa un altro. Seguire il virus lungo questi corridoi significa, in pratica, chiedersi se il contagio si diffonde come un incendio che salta da azienda ad azienda, oppure come un passeggero clandestino che viaggia nel corpo degli uccelli migratori lungo le loro rotte abituali.

 

Mettendo insieme tutte queste informazioni, il quadro che emerge è netto. Il primo grande ingresso del virus in Nord America risale all’autunno del 2021, probabilmente portato da uccelli selvatici provenienti dall’Europa che si sono fermati sulle coste del Canada atlantico. Da lì, in meno di cinque mesi, i discendenti di quel virus compaiono in campioni raccolti in tutte e quattro le flyways nordamericane: dall’Atlantico al Mississippi, poi al Centro del continente, infine al Pacifico. La diffusione non è uniforme, non segue linee casuali: il virus si sposta soprattutto tra corridoi vicini, e con una chiara tendenza da est verso ovest. È esattamente ciò che ci si aspetta se il vettore principale sono uccelli migratori che, anno dopo anno, seguono sempre più o meno gli stessi itinerari. È molto meno compatibile con una trasmissione che si muova per contatti tra allevamenti, camion, operatori e macchinari.

 

In parallelo a questa grande introduzione atlantica, gli autori identificano almeno altre sette introduzioni indipendenti provenienti dall’Asia, avvenute nel 2022 soprattutto lungo la costa del Pacifico. Molte di queste rimangono visibili solo per pochi mesi: il virus entra, viene campionato in qualche anatra o in qualche uccello di riva e poi sembra sparire. Una di queste linee, però, riappare nel 2024, dopo un lungo silenzio apparente, con un nuovo nome e una serie di discendenti. Qui la genetica ci ricorda un fatto scomodo: l’assenza di rilevamenti non significa che il virus non circoli più, ma spesso solo che non lo si è cercato abbastanza o nei posti giusti. Per capire chi tiene davvero in vita l’epizoozia bisogna guardare a quali specie si collocano i rami profondi dell’albero, quelli da cui partono molti discendenti, e quali invece si trovano solo alle estremità, come foglie isolate. Quando gli autori colorano l’albero per gruppi di animali, appare chiaramente che sono gli Anseriformi selvatici – anatre, oche, cigni – a occupare i nodi centrali. Le linee virali che li riguardano durano a lungo nel tempo, cioè restano in circolazione abbastanza da generare nuova diversità genetica. Sono anche da loro che parte la maggior parte dei passaggi verso altre specie: dalle anatre e dalle oche il virus arriva ai galliformi domestici, agli uccelli marini, ai rapaci notturni, ai passeriformi, e perfino ai mammiferi.

 

Il quadro è molto diverso per le altre specie che pure hanno avuto moltissimi casi. I rapaci, per esempio, hanno pagato un prezzo altissimo: aquile, falchi, condor, avvoltoi sono stati trovati spesso infetti o morti. Eppure, quando si guarda alla genealogia del virus, le loro infezioni sono quasi sempre rami corti e terminali: catene di trasmissione che partono da altri uccelli, di solito acquatici, e si fermano lì, probabilmente perché il rapace si ammala e muore senza avere molte occasioni di infettare altri individui della stessa specie. Lo stesso vale per molti piccoli uccelli e per i mammiferi selvatici: volpi, orsi, foche. Sono un segnale importante dell’ampiezza dell’epizoozia, ma non sono loro a sostenerla.

 

E l’agricoltura? Qui il risultato è insieme intuitivo e spiazzante. Intuitivo, perché sappiamo che tra il 2022 e il 2025 negli Stati Uniti sono stati abbattuti più di centosessanta milioni di volatili domestici a causa dell’H5N1: è evidente che il virus, una volta entrato in un grande allevamento, trova enormi possibilità di diffusione. Spiazzante, perché quello che ci interessa non è solo quanto riesca a correre dentro un capannone, ma se da quel capannone partano nuove linee che escono verso l’esterno. Gli autori affrontano la questione con un esperimento concettuale: riducono e aumentano artificialmente il numero di sequenze provenienti da uccelli selvatici rispetto a quelle degli allevamenti, per vedere se il quadro delle trasmissioni cambia. Se il settore agricolo fosse davvero il motore, basterebbe un diverso campionamento per vedere comparire il suo ruolo centrale. Non succede. Qualunque sia il rapporto scelto tra sequenze selvatiche e domestiche, la direzione dei passaggi resta la stessa: decine e decine di ingressi indipendenti dagli uccelli selvatici agli allevamenti, pochissimi nella direzione opposta. Quando si considerano i dati nella configurazione più realistica, quella che rispecchia il fatto che gli uccelli selvatici sono in realtà sottocampionati rispetto ai domestici, il numero di introduzioni indipendenti dalla fauna selvatica agli allevamenti arriva a superare il centinaio, mentre quelle in senso inverso restano nell’ordine delle unità. Inoltre, le linee virali che circolano nei domestici durano in media solo alcuni mesi, mentre quelle che circolano nella fauna selvatica restano attive anche per periodi doppi.

 

A questo punto l’immagine diventa chiara: le aziende agricole non sono il serbatoio da cui il virus si diffonde al mondo, ma bersagli ripetuti di un’infezione che ha la sua base altrove. L’agricoltura è colpita, soffre perdite economiche enormi, ma non “tiene in vita” il virus a lungo termine; lo riceve, lo amplifica per breve tempo, poi lo elimina con i culling. È la fauna selvatica migratrice che, al di fuori del controllo umano, continua a trasportare il virus lungo il continente.

 

Un capitolo particolare riguarda i cosiddetti “backyard flocks”, cioè i piccoli allevamenti domestici o semi-amatoriali, spesso con pochi animali tenuti all’aperto, mescolati tra loro e più esposti al contatto con uccelli selvatici. Si poteva immaginare che questi piccoli allevamenti funzionassero da ponte fra fauna selvatica e grandi aziende, facendo da tappa intermedia. I dati, però, raccontano qualcosa di diverso. Quando si guarda con attenzione al primo semestre del 2022, periodo in cui il virus si espande con forza, si vede che i piccoli allevamenti vengono colpiti leggermente prima delle grandi aziende, in media con un anticipo di circa una settimana e mezza. Quando si aggiungono tutte le sequenze provenienti dagli uccelli selvatici, i presunti legami diretti tra backyard e allevamenti commerciali si spezzano e vengono rimpiazzati da linee di trasmissione indipendenti: entrambe le categorie vengono colpite, ma in gran parte direttamente dal mondo selvatico, non l’una dall’altra. I piccoli allevamenti, insomma, si comportano più come sensori anticipati delle incursioni del virus che come ponti indispensabili nel contagio verso le grandi aziende.

 

Mettendo in fila tutti questi elementi, il lavoro arriva a una conclusione che obbliga a ripensare le strategie di controllo. Nella crisi del 2014-2015 bastava rinforzare la biosicurezza nelle aziende, chiudere meglio gli ingressi, limitare i movimenti, abbattere gli animali colpiti: il virus non aveva un supporto esterno stabile e, una volta ripuliti gli allevamenti, spariva. Oggi non è più così. Il nuovo H5N1 si è insediato nel mondo degli uccelli selvatici, soprattutto nelle anatre e nelle oche migratrici, e lì trova una combinazione ideale di numeri, movimento e ricambio generazionale per continuare a circolare.

 

Questo non significa che l’agricoltura sia irrilevante, anzi: gli allevamenti restano punti critici dove il virus può fare molti danni in poco tempo, e dove misure locali di biosicurezza e di risposta rapida sono ancora fondamentali. Ma significa che non basterà più intervenire solo sui capannoni. Occorre pensare a una sorveglianza sistematica degli uccelli selvatici, con campionamenti regolari nelle specie e nelle regioni chiave; a barriere fisiche e organizzative che riducano i contatti fra fauna selvatica e allevamenti; forse, in alcuni contesti, a campagne vaccinali mirate sugli animali domestici. Soprattutto, occorre accettare l’idea che l’influenza aviaria ad alta patogenicità non è più soltanto un problema degli allevatori, ma un fenomeno ecologico che coinvolge intere reti di specie e di ambienti, dal margine delle paludi alle rotte migratorie oceaniche.

 

Considerato il rischio di spillover di una nuova influenza umana pericolosa, un rischio considerato come reale da tutti gli esperti, One Health, come si vede, non è un semplice slogan: possiamo far finta di niente, addirittura indebolire moltissimo la sorveglianza (come in USA), oppure possiamo seguire la scienza.

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