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Cattivi scienziati
Il Consiglio nazionale delle ricerche è senza guida
Il consiglio di amministrazione del Cnr è scaduto, il presidente è decaduto a fine maggio, ma da allora nessuna nomina dei nuovi vertici. Ora l'ente – senza guida – non può operare in nessun modo. Tutto dipende dal Mur, che per inerzia o per mancanza di volontà continua a tacere
Il più grande ente pubblico di ricerca italiano è fermo. Non per mancanza di fondi, non per scioperi, non per tagli: per l’assenza di chi dovrebbe guidarlo. Il Consiglio di amministrazione del Cnr è scaduto a febbraio, mentre, esaurita anche la proroga, il presidente è decaduto il 27 maggio. Da allora, nessuna nomina – il direttore generale, prorogato, comunque non può supplire alla mancanza di un cda completo e nei suoi pieni poteri. Il Cnr è un organismo acefalo, senza vertici e quindi senza potere decisionale. Non è un dettaglio formale: senza rappresentanza legale e senza organi deliberanti, l’ente non può operare in alcun modo. È come una macchina senza chiavi, spenta nel mezzo di una corsa.
Questo significa che oltre 130 milioni di euro già stanziati sono inutilizzabili. Risorse assegnate, disponibili nei conti, ma bloccate perché nessuno ha l’autorità per firmare un impegno di spesa. Che circa 4.000 precari sono in attesa del rinnovo dei contratti, con l’angoscia di chi lavora da anni senza certezze e ora rischia di vedere interrotti progetti, sperimentazioni, rapporti costruiti con fatica. Che i fondi del Pnrr, vincolati a obiettivi e tempi precisi, e le attività in corso con università, imprese e partner internazionali sono a rischio blocco. Basta un ritardo nelle firme per perdere una tranche di finanziamento, per far saltare una collaborazione con l’estero, per compromettere interi programmi di ricerca applicata. Che il bilancio non può essere approvato, i progetti non possono essere avviati, le risorse già assegnate restano congelate. Ogni giorno si perdono milioni di euro e si bruciano occasioni che non torneranno. Le sedi territoriali non sanno se potranno pagare il personale non strutturato e le forniture nei prossimi mesi. Gli amministrativi non hanno margini di manovra – miriadi di decisioni collegate normalmente a delibere del CdA non possono essere prese, incluse per esempio le nomine per sostituire i direttori di Istituto in scadenza. E i direttori di istituto sono costretti a gestire l’ordinario in uno stato di sospensione che rende impossibile la pianificazione.
Il ministero dell’Università e della Ricerca, da cui dipende direttamente la nomina dei vertici dell’ente, tace. Non ha attivato le procedure per l’individuazione del nuovo presidente. Non ha indicato i nuovi membri del CdA. Non ha rinnovato il direttore generale, il cui incarico – statutariamente legato a quello della presidenza – è attualmente prorogato per qualche mese, ma comunque senza poter supplire agli organi come il CdA. Chi firma oggi gli atti del CNR? Nessuno. Chi può deliberare? In un paese normale, ci si aspetterebbe che il ministero agisca per tempo, che garantisca la continuità operativa di un ente strategico. Qui, invece, si assiste a una forma di disinteresse attivo, come se l’interruzione delle funzioni fosse un dettaglio trascurabile, un fastidio da rimandare.
Le conseguenze non sono astratte. Sono immediate, concrete, gravi. Il personale è in attesa, i laboratori si fermano, le scadenze slittano, le collaborazioni internazionali vengono meno. Un intero sistema, ancora funzionante nonostante anni di precarietà e nonostante i tagli (grazie soprattutto alla capacità di reperire fondi competitivi), ora rischia il collasso per una semplice omissione: quella di chi avrebbe dovuto agire, e non l’ha fatto. Non si tratta solo di contratti e fondi. Si tratta della fiducia nel sistema. Le persone che lavorano nel Cnr, i giovani ricercatori che ancora ci credono, i partner stranieri che guardano all’Italia come paese scientificamente affidabile, tutti stanno assistendo a una forma di svuotamento istituzionale. L’idea che si possa bloccare il primo ente scientifico del paese per inadempienza amministrativa mina alla radice la credibilità dell’intero comparto pubblico della ricerca.
Ci si chiede che cosa stia aspettando la ministra. Non servono approfondimenti, non serve un dibattito: serve una firma. Serve l’avvio immediato delle procedure di nomina. Serve un CdA legittimo. Serve un presidente che possa assumere decisioni, firmare atti, garantire continuità. Non domani. Oggi. Ogni giorno che passa senza decisioni aggrava il danno. I tempi della scienza e quelli della politica non coincidono mai, ma qui siamo oltre il ritardo: siamo nel sabotaggio per inerzia. L’assenza di una risposta non è solo un vuoto procedurale, è un segnale di disprezzo verso la funzione stessa dell’ente.
Ogni giorno che passa senza decisioni aggrava il danno. Non solo per il Cnr, ma per l’intera ricerca italiana. Non si tratta di una questione tecnica o burocratica. È una responsabilità politica, e come tale va chiamata per nome. Se il Cnr è bloccato, se il suo personale è lasciato senza guida e senza garanzie, se i fondi vengono sprecati, la responsabilità è di chi ha scelto di non decidere. E questa scelta non è neutra: produce effetti reali, quantificabili, misurabili. La perdita economica è solo una parte del danno. Più profonda è l’erosione della cultura istituzionale, l’idea che si possa tenere in stand-by la ricerca pubblica come fosse un dipartimento qualsiasi.
La ministra Bernini, che dovrebbe essere garante della ricerca pubblica, sta invece permettendo che il suo principale strumento operativo venga abbandonato all’impotenza. Che lo faccia per calcolo, per inerzia o per mancanza di volontà poco importa. Quello che conta è che, di fronte a un’emergenza istituzionale, il suo ministero non sta facendo nulla. E nulla significa, in questo caso, rendere impossibile ogni azione utile per la scienza italiana nei prossimi mesi.
E allora bisogna dirlo chiaramente: questo silenzio è colpevole. Questo immobilismo è un atto di ostilità verso la scienza italiana. E chi lo mantiene o lo tollera, se ne assume ogni responsabilità. Perché in certi casi non intervenire equivale a scegliere. E la scelta, qui, è contro la ricerca.

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