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cattivi scienziati

Il gene altruista: per sopravvivere è meglio collaborare

Enrico Bucci

La migliore o peggiore “cooperazione” fra singoli geni nel promuovere la sopravvivenza di un organismo che li porta tutti è un tratto che influenza il loro successo replicativo. Dal “gene egoista” di Dawkins alla conferma sperimentale pubblicata su Pnas

Nell’apertura di uno dei più importanti libri che hanno divulgato il neodarwinismo moderno, “Il gene egoista”, Richard Dawkins scrisse: “Sosterrò che una qualità prominente che ci si aspetta da un gene di successo è uno spietato egoismo. Questo egoismo genetico di solito darà origine all'egoismo nel comportamento di un individuo. Tuttavia, come vedremo, ci sono circostanze speciali in cui un gene può raggiungere meglio i propri obiettivi egoistici promuovendo una forma limitata di altruismo a livello dei singoli animali.” A scanso di equivoci, l’attribuire intenzioni ad un gene è una pura convenzione linguistica, perché, come lo stesso Dawkins ebbe a spiegare: "È ormai invalsa, tra i biologi, questa abitudine di parlare di un animale o di una pianta, o di un gene, come se cercasse consapevolmente il modo migliore di aumentare il proprio successo [...]. È un linguaggio di comodo che non è dannoso, a meno che non capiti fra le mani di persone che non sono in grado di capirlo".

Il punto da cui mi interessa partire oggi è che, a posteriori, nella visione di Dawkins i geni che massimizzano la propria possibilità replicativa sono quelli che si trasmettono e hanno successo, e mentre essi sono sostanzialmente sempre gli stessi per intere ere geologiche (a meno di piccole mutazioni), i “veicoli” di cui si avvalgono per la propria replicazione, ovvero gli organismi che li trasportano, periscono di generazione in generazione, per di più trasformandosi anche radicalmente quando l’insieme dei geni trasportati varia a sufficienza.

A livello di organismi, la collaborazione è un caso speciale di egoismo genetico; proprio come oltre 50 anni fa per la prima volta Dawkins concepì (ben prima di scrivere il suo libro), a quel livello essa non è altro che un caso particolare.

Fra i geni tuttavia è la norma, perché essi subiscono una selezione di gruppo, in quanto le interazioni fra geni diversi all’interno del “contenitore” (il corpo che li contiene tutti) sono in grado di regolare il successo riproduttivo e la sopravvivenza di un individuo, e dunque anche la possibilità replicativa di tutti i singoli geni di cui esso è portatore.

Questa predizione teorica ha trovato una illuminante conferma sperimentale in un lavoro pubblicato su Pnas, nel quale si esaminano batteri di ceppi diversi appartenenti ad una comune specie commensale del nostro intestino, Escherichia coli.

In breve, gli autori hanno utilizzato una procedura di apprendimento automatico per prevedere la presenza di geni non indispensabili alla sopravvivenza in un ampio insieme di ceppi di Escherichia coli, utilizzando altri geni non indispensabili come predittori. In questo modo, è stato possibile determinare che la presenza di un’ampia percentuale di geni è effettivamente prevedibile, suggerendo che la selezione di gruppo gioca un ruolo nella loro acquisizione, perdita e mantenimento. Alcuni geni, in particolare, sono costantemente associati alla presenza o all'assenza di altri: esistono cioè intere “comunità” di geni diversi che sono strettamente associate in ceppi diversi del batterio studiato, e che lo differenziano significativamente da un punto di vista biochimico, metabolico ed ecologico, influenzando così la probabilità della loro trasmissione congiunta da una generazione all’altra in funzione del tipo di ambiente in cui il portatore si trova a vivere.

Almeno nei batteri studiati, quindi, nell'evoluzione a lungo termine la selezione naturale potenzia e mantiene la copresenza di certi geni e l’antagonismo fra altri, in modo deterministico e resistente alle differenze casuali nella storia evolutiva del batterio che li trasporta. Almeno parte del genoma batterico può quindi essere esaminato come organizzato in “società” di geni che massimizzano reciprocamente la propria probabilità di trasmissione, analogamente all’insieme di organismi diversi interagenti di un ecosistema, quando le relazioni trofiche fra di essi favoriscono la loro presenza (o assenza) in gruppo.

Per ultimo, va notata la possibilità dimostrata di alcuni fra i gruppi di geni associati scoperti dagli autori di trasmettersi anche, sempre congiuntamente, attraverso meccanismi di scambio genetico orizzontale, cioè attraverso scambio di materiale genetico fra cellule anche di specie diverse. Questo elemento accresce ancor più l’analogia collaborativa, suggerendo che, indipendentemente dal resto del genoma in cui tali gruppi di geni si trovano a replicarsi, essi rimangono coesi persino traversando la barriera delle specie, come pacchetti di informazione su cui la selezione naturale agisce in modo stabile e ad un livello superiore a quello del singolo “gene egoista”.

Dopo tutto, anche l’altruismo e la collaborazione, nell’ottica non letterale e con i caveat interpretativi sottolineati dallo stesso Dawkins, appaiono radicati nella natura stessa dei geni, almeno quanto il loro “spietato egoismo”.

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