Frederic Leighton, “Flaming June”, 1895 (Wikipedia) 

lo studio

Perché dormiamo? Ecco le ipotesi scientifiche più affascinanti

Mattia Manoni

Il sonno è un aspetto essenziale della vita, dai moscerini all’essere umano: ridimensiona i problemi e accresce la capacità di affrontarli

Ci si rende conto di quanto sia importante dormire in due situazioni: quando non ci riusciamo e quando invece ci riusciamo molto bene. In quest’ultimo caso però, a causa di quella particolare legge che ci fa notare ciò di cui godiamo solo quando ci manca, non sempre siamo in grado di scorgerne i benefici. Perciò, forse, si potrebbe dire che no, che ci accorgiamo di quanto sia fondamentale il sonno solo quando non riusciamo a raggiungerlo.

  

Che dormire sia un comportamento piuttosto diffuso tra gli esseri viventi ne è prova il fatto che lo si trova tanto nei moscerini della frutta – creature piuttosto studiate a causa della relativa semplicità del loro sistema nervoso composto da circa 10 mila neuroni – quanto negli esseri umani – che invece di neuroni ne hanno 100 miliardi. Tuttavia, nonostante la sua diffusione, riuscire a definire cosa sia il sonno non è così semplice. Certo, dormire ristora. Senza sonno si diventa suscettibili e poco reattivi; scoordinati, incapaci di rispondere in maniera corretta agli stimoli presenti negli ambienti in cui ci si trova. Quindi la mancanza di sonno inficia la sfera motoria, emotiva e cognitiva. Dormire è anche un comportamento che pratichiamo similmente a ciò che facciamo quando mangiamo senza aver fame, per piacere. Altra caratteristica del sonno è l’immobilità nella quale si piomba, quando dormiamo infatti diventiamo immobili e vulnerabili. Privi di coscienza. O, almeno, sperimentiamo un diverso stato di coscienza rispetto a quello della veglia. L’esistenza degli esseri viventi è scandita dai ritmi circadiani. Ce ne sono di molto brevi come il battito cardiaco e di lunghissimi come il letargo. Ma tutti sono adattamenti a prevedibili cambiamenti ambientali, come ad esempio all’alternanza buio-luce.

 

È la difficoltà ad abbassare la temperatura corporea uno dei motivi per cui d’estate si fa fatica ad addormentarsi

 

Ciò che nel corpo svolge un ruolo di mediazione tra questa alternanza e le nostre risposte psicofisiologiche è l’ipotalamo, una struttura cerebrale che si trova quasi al centro del cervello la cui principale funzione è quella di mantenere il corpo in uno stato di omeostasi, di equilibrio. Passando dal controllo dell’appetito a quello degli impulsi sessuali, dalla regolazione della pressione sanguigna alla temperatura corporea. E’ proprio la difficoltà ad abbassare la temperatura corporea, ad esempio, uno dei motivi per cui d’estate si fa fatica ad addormentarsi. Il sonno, infatti, compare nelle ore in cui la temperatura del corpo è più bassa, quando il metabolismo rallentando produce meno calore. Durante la notte la temperatura del corpo diminuisce e solo poco prima dell’arrivo della luce inizia via via ad aumentare per preparare l’organismo all’attività diurna. Ecco perché è meglio evitare di mangiare cibi pesanti prima di andare a dormire; perché il corpo sta rallentando e per farlo diminuisce l’attività metabolica che invece viene accelerata da processi come la digestione. Quindi nulla di più azzeccato del detto “si mangia al caldo e si dorme al freddo”.

Sebbene il sonno, in quanto prodotto dell’evoluzione, sia fortemente regolato dal nostro organismo, è uno stato che, almeno per chi non riesce ad ottenerlo, va coltivato adottando le giuste precauzioni. Tra queste, oltre a quella di non mangiare cibi difficili da digerire poco prima di coricarsi, troviamo anche quella di non esporsi alla luce artificiale, e in particolare a quella prodotta dai dispositivi elettronici, quella cosiddetta “blu”, con una lunghezza d’onda compresa all’incirca tra i 400 e i 500 nanometri. Infatti, alcuni ricercatori finlandesi dell’Università di Helsinki, in una revisione del 2019 riguardante l’impatto della luce sulla salute umana, hanno concluso che l’esposizione all’illuminazione artificiale (e particolarmente a quella blu) inficia la produzione di melatonina che, in quanto ormone che segnala al corpo l’arrivo della notte è massima nelle ore notturne e minima in quelle diurne. E, come dire, tale dovrebbe rimanere. Questi ricercatori hanno trovato che l’impatto dell’inquinamento luminoso sulla salute umana scombussola i ritmi circadiani dell’organismo andando anche a modificare le fasi del sonno. In particolare, quella Rem (che sta per Rapid Eye Movement, “movimenti rapidi degli occhi”), la fase del sonno in cui si sogna.

  

Una teoria è quella che vede il sonno come il processo che permette al cervello di eliminare le sostanze di scarto prodotte durante la veglia

  

Del resto, quando ancora non eravamo sapiens (o lo eravamo da poco) centinaia di migliaia di anni fa, la possibilità di farsi scorpacciate di cibo grasso difficile da digerire poco prima di addormentarsi era decisamente bassa. Così come quella di essere esposti a una luce diversa da quella del sole. E sebbene possa sembrarci difficile da immaginare, i bisogni del nostro corpo non sono cambiati granché da allora. Ma cosa accade durante il sonno e qual è il suo scopo? Un’ipotesi è quella che vede il sonno come il processo che permette al cervello di eliminare le sostanze di scarto prodotte durante la veglia. Si è visto infatti che queste – in particolare le proteine beta-amiloide e Tau – aumentano in coloro che dormono poco o male. E che il loro eccessivo accumulo nel cervello porta nel tempo all’atrofia e infine alla morte delle cellule cerebrali. Inoltre, secondo un recente lavoro di Chanung Wang e David Holtzman, due scienziati della Washington University School of Medicine, esisterebbe una relazione tra la carenza di sonno, la presenza di queste sostanze e la malattia di Alzheimer, nota infatti per causare una riduzione delle dimensioni dell’encefalo e la perdita o la compromissione di gran parte delle funzioni che da lì emergono (non poco quindi). Inoltre, la privazione di sonno sembrerebbe non solo essere fortemente associata all’insorgenza di condizioni neurologiche come le demenze senili, ma anche a malattie come l’ipertensione e il diabete mellito. Insomma, se ci si riesce, nel dubbio, è meglio dormire. 

  

Due ricercatori italiani propongono che il sonno altro non sia che il prezzo da pagare per la capacità del cervello di modificarsi in base agli stimoli

  

Giulio Tononi e Chiara Cirelli, due ricercatori italiani della University of Wisconsin School of Medicine and Public Health, invece, hanno sviluppato un’altra ipotesi denominata synaptic homeostasis hypothesis (“ipotesi dell’omeostasi sinaptica”). Ciò che questi studiosi propongono è che il sonno altro non sia che il prezzo da pagare per la plasticità cerebrale, cioè per la capacità che il cervello ha di modificarsi in base agli stimoli che riceve. Ogni nuovo apprendimento, che sia motorio o cognitivo, richiede la creazione o il rafforzamento delle vie che collegano un neurone all’altro, le sinapsi appunto. La creazione di veri e propri percorsi sui quali l’informazione riguardo l’abilità acquisita o perfezionata può viaggiare. Quest’attività di produzione e potenziamento sinaptico si mantiene lungo l’intero arco di vita; si creano nuove vie per abilita apprese ex novo, si eliminano quelle che non vengono usate e si consolidano quelle più utilizzate. Secondo questi studiosi, l’obiettivo del sonno sarebbe dunque quello di riportare in uno stato di omeostasi, di equilibrio, l’attività sinaptica che continua a modularsi in base agli apprendimenti che la persona sperimenta durante la veglia. Permettendo in ultimo una migliore capacità di consolidare i ricordi che ne derivano.  

Il modo in cui si dorme è un comportamento che si è modellato nelle specie in base alle caratteristiche e alle necessità di ciascuna. Per gli esseri umani il sonno è caratterizzato da una quasi totale cessazione dell’attività motoria, dall’assunzione di una posizione supina, dalla chiusura di entrambi gli occhi e dalla produzione di onde cerebrali specifiche. Ma non per tutti gli esseri viventi dormire significa adottare questi comportamenti. Un modo di dormire bizzarro e affascinante è quello utilizzato dagli uccelli e da alcuni mammiferi marini come otarie, lamantini e delfini. Questi animali infatti dormono con un emisfero, con metà cervello per volta, un tipo di sonno noto come sonno uniemisferico. Dormire in questo modo permette una maggiore vigilanza, che per gli uccelli rappresenta principalmente una strategia anti-predatoria mentre per gli animali marini anche la possibilità di termoregolarsi e di poter emergere per monitorare la respirazione. Per questi animali il sonno uniemisferico si è rivelato il miglior compromesso per mitigare il conflitto esistente tra il sonno e la veglia, eppure, pochissimi altri viventi hanno adottato questo modo di dormire. Niels Rattemborg, ricercatore presso il Max Plank Institute, e colleghi, in un articolo intitolato Behavioral, neurophysiological and evolutionary perspectives on unihemispheric sleep (“Prospettive comportamentali, neurofisiologiche ed evolutive sul sonno uniemisferico”), ipotizzano che i primi mammiferi, essendo stati insettivori, piccoli come toporagni e soprattutto notturni, probabilmente durante il giorno dormivano al sicuro delle loro tane senza essere coinvolti in alcun tipo di attività. Una situazione in cui la vigilanza data dal sonno uniemisferico non era necessaria. Inoltre, questo tipo di sonno potrebbe essere stato scartato dalla maggior parte degli animali in quanto meno efficace di quello biemisferico, adottato invece solo da quegli animali che ne ricevevano degli immediati benefici in termini di sicurezza, come, appunto, gli uccelli e i mammiferi marini. Un altro modo di dormire, continuano gli autori, è quello adottato dai ruminanti che intervallano il sonno e la veglia con lunghi periodi di sonnolenza. Questa ulteriore strategia permetterebbe di evitare un’impegnativa riorganizzazione del sistema nervoso verso uno dei due tipi di sonno, sfruttando alla stesso tempo una caratteristica (la sonnolenza) già presente nei mammiferi durante il passaggio dalla veglia al riposo.

  

C’è un generale accordo sul fatto che in qualche modo i sogni servano a riorganizzare e a rielaborare ciò che si è sperimentato durante la veglia

  

Da qualsiasi prospettiva lo si guardi, il sonno ci ha sempre affascinati: che lo si osservi da quella scientifica che mira a indagarne le origini e i meccanismi di funzionamento, da quella mitologica che ne parla intrecciando storie di dèi e aspirazioni umane, oppure, molto più semplicemente, da quella personale. Ciò che solitamente ci incuriosisce di più, infatti, è ciò che si accompagna al sonno – o che più esattamente ne è parte integrante –, i sogni. Non è chiaro a cosa servano e a seconda della disciplina a cui si fa riferimento si trovano ipotesi leggermente diverse. Ciò su cui c’è un generale accordo però è sul fatto che in qualche modo i sogni servano a riorganizzare e a rielaborare ciò che si è sperimentato durante la veglia. Tanto che il modo in cui si sogna, oltre a riprodurre interessi, paure e carattere, sembra rispecchiare anche il grado di sviluppo raggiunto durante la crescita e la presenza di sopraggiunti deficit percettivi, come quelli sperimentati da persone con lesioni cerebrali.

Il fatto che il nostro cervello, in una situazione di quasi totale disconnessione dalla realtà, riesca a creare mondi, narrazioni costituite da immagini e trame, non è cosa da poco. Così come il fatto che il mondo dei sogni possa confondersi con quello reale tanto da mettere in dubbio il sognatore su quale dei due stia sperimentando. Infatti, il sonno Rem, la fase del sonno in cui si muovono velocemente gli occhi poiché si sta osservando ciò che sta accadendo nei sogni, mostra un’attività cerebrale molto simile a quella registrata durante la veglia. Così simile da essersi meritato l’appellativo di “sonno paradosso”. L’ambiguità dai quali sono ammantati i sogni è sottolineata anche dal fatto che questa parola può significare qualcosa di poco importante a cui non dare peso e al contempo qualcosa di bellissimo a cui aspirare. 

Il sonno, dunque, che sia un abisso di nero silenzio o un mondo colorato e caleidoscopico, che lo si incontri volutamente o per caso, da distesi o da seduti, facilmente o a fatica, è sempre un grande amico. L’unico che nel tempo di una notte ridimensiona i problemi e accresce la capacità di affrontarli. Perciò, che non si perda tempo, che chi non dorme non piglia pesci.

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