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Cattivi Scienziati

La patogenicità del virus è imprevedibile: un debunking

Un nuovo articolo ripropone il mito darwiniano secondo cui la letalità di Sars-CoV-2 dovrebbe diminuire nel tempo. Ma si basa su una credenza dichiarata dagli autori: un punto cruciale che con la scienza ha molto poco a che vedere

Ogni tanto, si assiste al ritorno in qualche forma diversamente strutturata del mito novecentesco riguardo la necessaria e darwiniana tendenza dei virus a perdere patogenicità. Non che questo non possa accadere; solo che, a meno di una rivoluzione del nostro modo di intendere il modo in cui funziona l’evoluzione naturale, la perdita o l’acquisto di patogenicità di un virus, purchè questa non sia direttamente legata alla possibilità del virus di riprodursi, non sono prevedibili. I virus, lo abbiamo visto e detto mille volte, non si rabboniscono per forza, ma oscillano in modo stocastico in quanto a virulenza.

L’ultima variante delle “leggi di natura” che costringerebbero i virus a rabbonirsi è espressa in un modo un tantino più sofisticato del solito, in un articolo appena pubblicato che sostiene quanto segue: il prodotto della letalità per il numero di riproduzione di base (R0) di un virus sarebbe uguale a una costante. Tradotto in linguaggio più semplice: il numero di nuovi ospiti infettati a partire da un soggetto infetto, in condizioni idealizzate, moltiplicato per la percentuale di soggetti infettati che muore, è costante, così che al crescere del primo decresce il secondo e viceversa.

Ora, se questo fosse vero, non sfuggirà all’arguto lettore che, poiché la selezione opera spingendo ad aumentare il numero di ospiti che un virus è in grado di infettare, la letalità dovrebbe – per semplice effetto di questa selezione darwiniana – diminuire nel tempo; e così, se questa osservazione fosse vera, saremmo davanti all’importante accertamento di una tendenza selettiva che, nel favorire l’infettività di un virus, diminuirebbe la letalità.

Prima di chiederci perché proviamo a chiederci se questo è vero, cioè se i dati usati dagli autori supportano davvero le conclusioni che essi pensano di trarre.

La cosa è molto semplice, perché gli autori riportano i dati di partenza, R0 e letalità (L) per alcune varianti di Sars-CoV-2, per certi sottotipi influenzali di tipo A, per alcuni ceppi del virus Ebola e per alcuni del virus del morbillo, per poi affermare appunto “il prodotto di R0 e L dà un valore quasi costante”.

Ora, a partire dalla stessa tabella fornita per esempio per il morbillo, osserviamo che questa cosiddetta “costante” varia da 12 a 42, ovvero quasi del 400%.

I dati per il morbillo, nonostante la dichiarazione testuale nell’articolo, in realtà contraddicono proprio la tesi che si sta affermando.

Se poi andiamo a guardare gli altri tre tipi di virus considerati (ciascuno che dovrebbe fornire una costante diversa, in dipendenza del tipo), scopriamo che per Ebola si sono considerati tre ceppi – si pretende cioè di determinare una costante da tre punti (per gli altri virus i punti sono cinque).

Per tutti poi, morbillo incluso, non si esamina minimamente l’errore né su R0 né sulla letalità, pur potendo condurre l’analisi di tale errore a partire dai numerosi dati disponibili in letteratura; ma qui già entriamo nei tecnicismi, e non voglio tediare il lettore.

Ora, guardiamo bene: abbiamo che uno dei quattro esempi scelti dagli autori contraddice quanto essi credono di concludere; abbiamo che, in ogni caso, per determinare una nuova “legge” sull’evoluzione virale, si considerano pochissimi punti e non si considera l’errore; abbiamo infine che numerosi altri ceppi degli stessi virus non sono considerati nell’analisi.

Come è possibile pensare minimamente di avere in mano qualcosa di solido e convincente? Forse la chiave sta in una frase in apertura dell’articolo, laddove gli autori scrivono: “Crediamo in questa equazione che considera la biologia dei virus in termini darwiniani”.

Crediamo, questo è il punto cruciale: ma questo, naturalmente, con la scienza o con una dimostrazione che regga ha molto poco a che vedere, e il fatto che una rivista del gruppo Elsevier pubblichi questa credenza non servirà per nulla a renderla più plausibile.

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