(foto Ansa)

cattivi scienziati

Il brodo di polpo ci salverà! La scienza alla prova dei falsi miti

Enrico Bucci

Per essere davvero umani con i pazienti serve distaccarsi dai casi particolari, affidandosi alla statistica. Altrimenti si sta solo manipolando le persone con la più crudele delle illusioni

Supponiamo che vi sia una malattia che uccide un malato ogni 100, mentre gli altri 99 – chi prima, chi dopo, chi meglio, chi peggio – guariscono. Se io fossi medico e arrivassi dai malati e dai loro famigliari, consigliando di bere infuso di polpo femmina per guarire, 99 volte su 100 sarei ringraziato da pazienti felicemente guariti e dai loro amici e parenti; nell’unico caso ogni 100 di esito infausto, potrei facilmente addurre motivi come pregresse patologie, debolezza, imprevisti, sorte avversa e così via.

Questo meccanismo funziona perché ognuno di noi, quando si ammala, teme di essere quello che potrebbe morire o finire molto male, e così temono i suoi famigliari; per questo, se qualcuno in camice bianco, con parole rassicuranti e con ogni segno esteriore di essere un esperto, di quelli che non abbandonano i pazienti ma li seguono, li toccano, li consolano, si presenta a visitarci e ci raccomanda l’infuso di polpo, noi saremo sicurissimi che ogni effetto avverso della malattia è stato evitato proprio grazie all’esperienza di quel vero medico, di quel vero esperto, santo guaritore che abbiamo incontrato, magari grazie al passaparola di altri, pure loro guariti.

Oltretutto, se io fossi colui che somministra brodo di polpo, avrei dalla mia anche il grande vantaggio che i morti difficilmente parlano, e che se mi sono impegnato davvero a confortare, a stringere mani, a cercare di tranquillizzare colui che poi è morto e i suoi famigliari, il debito di gratitudine di coloro che si convincono che io abbia fatto tutto il possibile sarà tale da mettermi probabilmente al riparo da ogni critica successiva; anzi, forse i famigliari del defunto si convinceranno ancor più della mia santità e dell’efficacia del brodo di polpo, che ogni tanto – tutto è fallibile se umano – non funziona. Tutte le voci di chi avessi incontrato, rassicurato e turlupinato, finirebbero per confluire in un’unica, grande voce: Enrico Bucci è il maestro, il santo medico che ci ha aiutato, che ha affrontato con le sue mani e di persona la malattia, che ci ha guarito grazie al suo ingegno e al suo semplice ritrovato, ben lontano dalle chiacchiere degli accademici, dei medici televisivi, di quelli a libro paga di Big Pharma e delle star degli ospedali. Lui, non altri, è venuto a visitare il malato; lui ha suggerito il rimedio, semplice e disponibile, lui ci ha seguiti e, vedete, la malattia è scomparsa.

Se qualcuno dovesse mettere in dubbio questa palmare verità, questa evidenza fattuale, questa esperienza diretta, bisognerà ricordargli che tutti i libri, tutte le pubblicazioni scientifiche, in una parola tutte le chiacchiere, non valgono ciò che si è visto direttamente e che è sotto gli occhi di tutti, come le voci sui social dimostrano: è Enrico Bucci che ha capito, è lui che ci ha guarito e medicina ufficiale, burocrazia e politica non vogliono prenderne atto evidentemente perché hanno interessi diversi dalla cura del paziente.

Il brodo di polpo è il rimedio, il medico che visita l’ammalato e dà un’indicazione seguita da guarigione è tutto ciò di cui c’è bisogno; il resto va combattuto, a partire da quei giornalisti di regime che non solo non parlano di quanto abbiamo visto con i nostri occhi, ma addirittura denigrano e minimizzano i risultati di quel saggio buono e gentile che abbiamo avuto la ventura di incontrare quando eravamo nel bisogno. Questo, e non altro, è quello che decine di migliaia di persone vedono, e l’euristica legata all’esperienza diretta è così forte, che nessun innaturale utilizzo del pensiero razionale potrà mai cambiare le loro convinzioni. Nessuno crederà mai che, perché si possa attribuire una guarigione a un trattamento, serve proprio la lontananza dagli aspetti umani della cura: serve la statistica, il test in cieco, il non sapere cosa si somministra e chi sta facendo cosa, perché è l’unico modo di scoprire se chi guarisce non sarebbe guarito comunque, indipendentemente dal brodo di polpo, dalle coccole del medico così umano e dalle parole rassicuranti e solidali. Serve paragonare gruppi perfettamente equivalenti di persone trattate e non trattate, tutte allo stesso modo; il contrario della cura personalizzata, del pensiero per il singolo paziente, dell’attenzione all’umanità particolare. E’ la fredda, gelida statistica a restituire una speranza in più e questo è l’aspetto più alienante, sia per i medici che per gli ammalati, della sperimentazione clinica; le sensazioni individuali e il calore umano, così importanti per prendersi davvero cura di un paziente come persona, vanno escluse dalla valutazione di efficacia di un trattamento. Per essere davvero umani con i pazienti, bisogna innanzitutto sapere davvero ciò che si fa; altrimenti, si sta solo manipolando le persone con la più crudele delle illusioni.

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