(foto Ansa)

cattivi scienziati

Due studi danno buoni risultati sulla durata dell'immunità da vaccino e infezione

Enrico Bucci

In un paio di paper recenti viene mostrato come la durata della protezione, almeno dei casi clinici più gravi, potrebbe essere duratura

Quanto dura la risposta immune indotta dai vaccini o dal virus? E’ una domanda cruciale perché, se anche la circolazione del virus non dovesse essere bloccata del tutto dall’immunità raggiunta, la risposta può permetterci di valutare almeno per quanto tempo le comunità umane siano protette dagli effetti peggiori di Sars-CoV-2, da un punto di vista clinico e sociale, e di conseguenza economico e politico. Un paio di nuovi studi, ancora in fase di preprint, possono aiutarci.

In un primo studio, un gruppo di ricercatori americani ha identificato una trentina di soggetti, i quali si erano infettati un anno prima. Questi avevano sperimentato sintomi di gravità differente. Nei soggetti esaminati, a 12 mesi dall’infezione sono stati identificati ancora anticorpi circolanti in grado di riconoscere specificamente Sars-CoV-2; allo stesso modo, sono state identificate cellule T specifiche per il virus, a dimostrazione della lunga durata anche di questo tipo di risposta immune. La reazione anticorpale è risultata migliore e più frequente nei soggetti che avevano sperimentato i sintomi peggiori; invece, la risposta cellulare è risultata di ampiezza paragonabile indipendentemente dalla gravità della malattia sostenuta.

Questo studio è piccolo, e soprattutto manca di controllare la capacità neutralizzante della risposta anticorpale; tuttavia, è coerente con i dati di un secondo studio, condotto da un gruppo del Karolinska Institutet svedese, in cui si è controllata la presenza e la capacità neutralizzante degli anticorpi ottenuti da sieri di soggetti con malattia lieve (104), oppure vaccinati con due dosi di vaccino Pfizer (67), oppure con due dosi di AstraZeneca (87) o infine con la vaccinazione eterologa ottenuta con il vaccino AstraZeneca seguito da Pfizer (116). Dopo un anno, la capacità dei sieri ottenuti da questi pazienti di neutralizzare il virus originale, la variante alfa e la delta sono state riscontrate essere buone; meno buone nel caso delle varianti beta e gamma, le cui mutazioni specifiche devono quindi essere oggetto di sorveglianza nella popolazione (perché sebbene le due varianti originali siano in declino rispetto alla delta, le loro mutazioni potrebbero passare per ricombinazione ad altre varianti).

Nel complesso, questi due ultimi lavori vanno ad aggiungersi a lavori che avevano effettuato misure su intervalli minori di tempo, confermando la durata dell’immunità anticorpale e cellulare indotta dal virus e dai vaccini. Ovviamente, questi dati non significano affatto che non ci si possa contagiare dopo l’infezione o dopo vaccino, ma implicano che la durata della protezione almeno dagli effetti clinici più gravi potrebbe essere duratura; questo perché il virus potrebbe ben colonizzare il naso dei soggetti anche vaccinati (come in effetti si osserva, in una certa percentuale di casi), ma poi sarebbe limitato nella sua espansione al resto dell’organismo dall’immunità acquisita tramite precedente infezione o vaccino, almeno in quella maggioranza di soggetti che risulta abbiano mantenuto livelli sufficienti di risposta anticorpale e cellulare. Questo quadro sarebbe peraltro coerente con quanto si è già osservato nella Sars: in quel caso, almeno l’immunità cellulare è risultata persistere oltre un decennio dall’infezione originale, almeno nei soggetti con sintomatologia più seria. Man mano che procede il tempo, dunque, continuiamo a imparare; e quello che sembra si possa ricavare da ciò che impariamo, almeno in questo caso, è piuttosto positivo per quel che riguarda la nostra possibilità di controllare gli effetti deleteri della diffusione di Sars-CoV-2, anche al netto delle varianti sin qui emerse. Vedremo più avanti quanto questi primi dati incoraggianti saranno confermati.

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