L'intervista della domenica

Nello spazio tra le nuvole

Simonetta Sciandivasci

La cosmologia sperimentale, l'astrofisica, le spedizioni in Antartide, i telescopi, il bagliore del Big Bang, la ricerca, il caso, la fine della terra, il blues. Conversazione con Federico Nati

Federico Nati lavora meglio dove non c’è aria e tutto è estremo e avverso alla vita, alieno. È un astrofisico sperimentale e un cosmologo: per osservare il cielo, deve evitare l’atmosfera, stare dove niente, né l'aria né il vapore acqueo, possa contaminare le sue rilevazioni. Per osservare il cosmo, scoprirne il passato, capire se si evolve o no, lo stesso: deve andare dove l’uomo non s’insedia. In Antartide, neanche un anno fa, è andato a far volare un telescopio avveniristico su un pallone stratosferico che volasse a quaranta chilometri di quota, praticamente nello spazio, che è uno dei due modi per compiere le sue osservazioni. Non molto tempo prima era stato in Cile, sulla bocca di un vulcano tra le Ande, a 5200 metri d’altezza, a montare un altro telescopio dal quale guardare il cielo. E questo è l’altro modo: trovare posti del pianeta che consentano rilevazioni di dati che altrove non sarebbero possibili. Nell’introduzione al libro in cui ha raccontato queste sue spedizioni, “L’esperienza del cielo” (La Nave di Teseo), che è anche un avventuroso, sapiente libro sulla scienza e la ricerca, Nati scrive che la sua è la storia di molti altri uomini, “gli scienziati con il cacciavite”, quelli senza le glorie della storia, che di discostano molto dall’immagine che tutti abbiamo di cervelloni da laboratorio e anche di esploratori dello spazio, uomini del futuro che, chiusi in scafandri volanti, si lanciano verso l’infinito e oltre. Quest’anno, però, lo scienziato è per noi l’epidemiologo, il dottore, e lo spazio di ricerca è il corpo umano, non la galassia.

 

Che cosa succede a uno scienziato che studia il cielo tra i deserti di ghiaccio, quando il mondo per un anno si può guardare soltanto affacciandosi dalla finestra di casa propria?

Le frontiere sono cambiate, è vero. Tradizionalmente, quando uno pensa alla scienza, soprattutto da profano, immagina lo spazio, le navicelle, i satelliti. In verità, e i fisici ne hanno piena consapevolezza, la frontiera dello studio della natura è molteplice: esistono il macroscopico e il microscopico, l’astrofisica e la fisica quantistica, ma anche quella delle epidemie e la biofisica. Sono discipline diverse ma non separate. L’epidemiologia, per esempio, attinge dai modelli fisici e matematici. In questi mesi, molti si sono stupiti del fatto che i fisici si siano interessati allo studio della pandemia e invece è del tutto normale, persino ovvio e anche dovuto. Del resto, il metodo scientifico ha un raggio di applicazione estendibile quasi a tutto lo scibile umano. Da uno stesso oggetto di studio, si possono diramare decine di intuizioni e scoperte.

 

Lei per esempio ha creato un respiratore meccanico.

Non l’ho fatto da solo. Durante il lockdown, il lavoro di laboratorio è stato sacrificato molto, ma io sono stato comunque fortunato, perché ho avuto una fase che coincideva con la didattica, quindi non ho perso molto. Non sono stato costretto a tornare a casa mentre ero, come mi capita spesso, arrampicato su qualche traliccio di qualche telescopio. A marzo sembrava che il problema degli ospedali fosse la carenza di apparecchiature per la respirazione - poi in realtà abbiamo visto che era solamente uno dei problemi, e che servivano molte terapie intensive e molto supporto medico alla popolazione. Così, io e molti altri colleghi, da fisici, ci siamo chiesti se fosse possibile costruire prototipi di ventilatori meccanici riproducibili su vasta scala in poco tempo. E abbiamo scoperto di sì. Il nostro modello viene già ora prodotto e distribuito in alcune centinaia di unità al giorno. Tuttavia, in Italia non possiamo reclutare allo stesso ritmo nuovi operatori che sappiano usarlo, e in generale che siano capaci di intubare un paziente.

 

No! La prego, non mi getti nello sconforto.

Ma perché si meraviglia? È la stessa cosa che è successa con i vaccini: non siamo riusciti a stare al passo con la progettazione di altri paesi, nonostante da noi ci siano realtà importantissime, aziende più che valide: se la maggior parte dei biotecnologi italiani sta all’estero, il vaccino si farà all’estero. Noi abbiamo il petrolio, ma lasciamo che lo usino gli altri, arricchendosi.

 

Ma perché? Come possiamo essere tanto fessi?

Ho l’impressione che cultura e scienza, in Italia, nella percezione di tutti, siano considerate due cose distinte. 

 

Non che la cultura se la passi meglio.

No, ma le vengono riconosciuti un peso e una valenza quotidiana. Comincia persino a essere chiaro che può essere un volano economico. Invece la scienza è ancora percepita come speculazione: quando opera fuori dagli ospedali, in fondo, è considerata inutile. E invece il progresso scientifico ha un riverbero ampio in tutto e ciascuna disciplina, anche in maniera completamente inaspettata, può rivelarsi utile alle altre. Il metodo scientifico di cui tanto si parla non esiste soltanto in ambito accademico e non è uno, ma piuttosto un insieme di regole che, facendo uso di sperimentazione, di linguaggi matematici e di pratiche sperimentali si consolidano all’interno di una comunità e che, così facendo, cercano di limitare gli errori dell’uomo.

 

Mi chiedo se il modo in cui trattiamo la scienza in questo paese non soffra del pregiudizio per cui studiarla o anche solo accostarcisi sia un lusso riservato alle menti superiori, ai geni.

Credo che dipenda da come la insegniamo a scuola. Non ci sono modi di raccontare matematica e fisica che siano legati alla storia. Mentre letteratura, storia e filosofia vengono raccontate di pari passo, la matematica parte in modo del tutto astorico. La geometria euclidea, per esempio, viene presentata come un gioco di logica e allora succede quello che dice lei: uno studente si convince che solamente se è particolarmente abile e ha buona memoria, può riuscire a risolvere problemi di geometria. E qui si apre la questione della statistica.

 

Alcuni anni fa, Diego Cugia scrisse che la statistica era un modo per dire che da soli non contiamo niente ma insieme facciamo un’opinione.

Che errore. Vede, alla statistica si pensa o come a uno strumento per giocare la schedina, o come una scienza di calcoli complessi e incomprensibili. In verità, almeno dal Settecento la statistica ha un ruolo fondamentale nella cultura, perché ci consente di misurare la nostra incertezza e, soprattutto, evidenzia che scienza e sapere scientifico non sono oggettivi, bensì soggettivi o al massimo intersoggettivi, ovvero condivisi da molte persone. Da un punto di vista pratico e numerico, la statistica è diventata centrale negli ultimi cinquant'anni, da quando usiamo i computer, gli immensi pallottolieri che fanno migliaia di calcoli nel giro di poche frazioni di secondo, producendo dati con i quali possiamo analizzare e interpretare la realtà. Ancora, la statistica consente di simulare come le cose andrebbero nel caso in cui certe ipotesi fossero valide, confrontandole con ciò che vediamo. In ultima analisi, ci consente di misurare la probabilità delle ipotesi, quindi di aggiornare la nostra conoscenza strettamente legata alla nostra capacità inventiva - le ipotesi che formuliamo sulle cause di un evento variano a seconda della nostra immaginazione: la statistica ci consente di metterle alla prova. Vede quanto la scienza è legata alla creatività?

 

Se le chiedo una definizione chiara e precisa di metodo scientifico, cosa mi dice?

In estrema sintesi, è il modo in cui regoliamo il nostro rapporto con l’illusione e con la fallacia.

 

Si rende conto di quanto è difficile accettare che la scienza, specie la medicina, non dà certezze?

È anche vero che la scienza, inclusa la medicina, sbaglia almeno quanto trionfa: finora, ci ha dotati di strumenti che ci hanno salvato la vita, e che ci hanno aiutati a evitare gli errori che il nostro cervello è bravissimo a farci commettere (penso al bias di selezione o di conferma, alle echo chamber): il metodo scientifico si oppone ai nostri molti modi di sbagliare e lo fa anche attraverso la condivisione del sapere sul quale tanti esperti si confrontano. E a proposito di esperti: anche loro possono sbagliare, è un fatto inevitabile. Il sapere scientifico si costruisce come condivisione di conoscenze all'interno di comunità che lavorano insieme: a volte si crea un consenso intorno alle cause di fenomeno, ma non significa che si è pervenuti alla verità assoluta. La scienza non produce certezze: si fida fino a un certo punto. Questo rafforza la necessità di costruire un rapporto virtuoso tra esperti e non esperti, tra chi comunica e chi ascolta: è una relazione molto delicata, nella quale non credo possano giovare la clava e la frusta.

 

Mi ha molto impressionata che lei abbia fatto parte della squadra internazionale che ha progettato dei nuovi respiratori meccanici open source, più agevoli da usare e anche da costruire. Trovo bellissimo che a un macchinario che serve a far respirare un uomo, abbia lavorato un astrofisico. È proprio vero che tutto è in tutto – scusi la retorica, ma non resisto.

Io faccio l’astrofisico e il cosmologo, studio di cosa è fatto l’universo. E uno può dire: bello, ma che c’entra con quello che un persona farà domani o oggi, che c’entra con la tecnologia che serve a curare le persone? Quel respiratore dimostra cosa e quanto c’entra. Gli esperimenti che producono sapere astrofisico o astronomico o cosmologico molto spesso portano anche una quantità incredibile di innovazione. Uno strumento che monto su una stazione spaziale è il risultato di decine di migliaia di brevetti, un’eredità che molto spesso potrà essere usata per tutt’altro. Anche il senso che abbiamo delle cose è influenzato da quello che sappiamo del nostro universo. Conoscere l’origine del mondo cambia la letteratura, l’arte, l’economia e lo fa a volte senza che ce ne rendiamo conto. In fondo è per questo che anche un informatico può contribuire alla scoperta di un vaccino e un astrofisico può lavorare in un team internazionale che progetta nuovi respiratori meccanici. 

 

Quanto sono importanti il caso e la distrazione nella scoperta scientifica? Colombo trovò l’America mentre cercava le Indie e penso spesso che il progresso avvenga soprattutto così, involontariamente, mentre si è concentrati su altro e si hanno altri scopi.

Una delle scoperte fondamentali per la cosmologia è stata fatta esattamente così. Preciso: la cosmologia è la parte dell’astrofisica che studia ciò che è il cosmo nel suo insieme e cosa gli è successo nel tempo – diversamente da quello che spesso si crede, il suo oggetto di studio non sono stelle e galassie. Nel mio campo facciamo uso di telescopi che guardano la radiazione cosmica di fondo, un bagliore che non riusciamo a vedere ma che di fatto permea l’intero universo: è una radiazione fossile, un residuo del Big Bang. Questo bagliore diffuso fu scoperto per puro caso, alla fine degli anni Quaranta, da due ingegneri del New Jersey che, quando costruirono un radiometro per la comunicazione via satellite, s’accorsero che lo strumento intercettava un fruscio di fondo che non riuscivano a eliminare. Quando lessero che a Princeton una squadra di scienziati stava cercando un bagliore primordiale, e ne lessero la descrizione, capirono di averlo trovato. Vinsero il Nobel cercando altro.

 

Wow. Viene proprio voglia di amare il genere umano, quando fa così. Lei si fida?

Certo che sì, anche se a volte mi mette a dura prova, anche se ho lavorato con colleghi che mi abbandonavano a cinquemila metri di quota per andare a spacciare droga sul confine tra Cile e Bolivia. Anche se gli uomini hanno innescato alcuni meccanismi che hanno alterato gli ecosistemi del pianeta irreversibilmente.

 

Però abbiamo anche fatto i Beatles e trovato il bagliore primordiale.

Naturalmente. Ho questa fede – e questa sì che è una fede: non ho trovato prove incontrovertibili che l’essere umano sia più propenso a fare il bene che il male, eppure credo che lo sia. Come ogni fede, ogni tanto vacilla e devo sforzarmi per tenerla in piedi.

 

E se, invece, la lasciasse andare?

Sarebbe ingiusto. Il mio è un mestiere legato anche alla produzione di armi: senza i fisici non ci sarebbe bomba atomica e senza i chimici non ci sarebbe il gas nervino. Questo mi crea non poche preoccupazioni e dilemmi, che supero proprio grazie alla fiducia nel bene che sta nel cuore di ogni uomo, nella sua capacità di sceglierlo e perseguirlo. È un atto di fede, ma con un margine realistico piuttosto buono.

 

Quando era in Antartide, e in generale quando si è trovato in situazioni estreme, è stata più forte la diffidenza o la solidarietà verso gli altri?

Un aspetto che non viene evidenziato abbastanza nella ricerca scientifica è quello umano, relazionale. E invece è fondamentale, perché un team affiatato lavora meglio e l’esito di un esperimento può persino dipendere dall’umore di chi lo compie. Gli scienziati sono esseri umani, per loro più di altri la cooperazione è essenziale.

 

Siamo all'inizio della fine della terra?

L’uomo non abita da sempre il questo pianeta e non ci sarà per sempre. Noi siamo una parentesi molto breve nella storia dell’universo, che ha 14 miliardi di anni - il sistema solare ne ha circa 5 miliardi. Capisce? Nemmeno reggiamo il confronto. La nostra centralità, in questo momento, è dovuta semplicemente al fatto che siamo i maggiori responsabili del disastro ambientale, che abbiamo il dovere di provare a riparare, indipendentemente dagli esiti che avrà: non siamo ancora in grado di stabilire se, una volta innescato, sarà un palliativo o se avrà una funzione più decisiva. Come che sia, la nostra specie durerà poco, se confrontata con i tempi del cosmo, e altrettanto poco dureranno la nostra memoria e il nostro sapere.

 

Che l’eternità non esista è una bella notizia, dopotutto.

Non esiste per l’uomo. Però esiste l’eredità. Dobbiamo pensare che lasceremo questo mondo agli altri che verranno dopo di noi.

 

È più forte il limite del corpo o quello della mente?

Su questo continuo a interrogarmi. Non ne sono affatto certo, ma credo che quello fisico sia invalicabile, mentre quello intellettivo, prima o poi, lo supereremo.

 

Ma moriremo lo stesso?

Moriremo lo stesso. Però avremo prodotto il blues. Ne sarà valsa la pena, no? 

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  • Simonetta Sciandivasci
  • Simonetta Sciandivasci è nata a Tricarico nel 1985. Cresciuta tra Ferrandina e Matera, ora vive a Roma. Scrive sul Foglio e per la tivù. È redattrice di Nuovi Argomenti. Libri, due. Dopodomani, tre.