L'intervista della domenica

Focolare cammina con me

Simonetta Sciandivasci

Il tempo della festa, il Natale dei licantropi, i concerti per assenti, il Fuori Orario, i maghi, le bestie, la caverna di Lascaux, il mondo della verità, le paste. Conversazione con Vinicio Capossela 

Ho visto Vinicio Capossela che era ombra, pescatore, marinaio, tritone, Tiresia, San Nicola, povero cristo, monachicchio, pumminale, fauno, porco, asino, tarantola. L’ho visto suonare in processione, con i piedi scalzi, infilati in stivali da gatto, e il corpo in un mantello, in un tabarro, in una vela. L’ho visto con la fronte cornuta, le spalle alate, le mani fatate. L’ho visto scomparire, riapparire, ballare di tutto. Aveva sempre un cappello in testa. 

Un agosto di molti anni fa, l’ho incontrato al mercato del pesce di Catania, alle sette e mezza del mattino, era là con il suo taccuino a scrivere davanti a un enorme banco di pesce spada ancora interi, con la spada e tutto: aveva il cappello anche lì, e non avevo osato disturbarlo – i musicisti non li devi disturbare mai, anche quando fanno qualcosa di incomprensibile che magari sembra niente: bisogna fare come i milanesi che coprirono di paglia la strada intorno all’albergo di Verdi, di modo che non venisse disturbato dal rumore delle carrozze.

Dal 25 dicembre al sei gennaio sarà online il suo tradizionale concerto di Natale, anzi delle Feste, registrato come sempre al Fuori Orario, un locale di Taneto di Gattico, in provincia di Reggio Emilia, che ha un vecchio treno parcheggiato dentro. Per presentarlo, ha scritto: “Tutte le ritualità del fine anno hanno a che vedere con la resurrezione della luce, dopo l’apogeo del solstizio d’inverno. Il nostro concerto del coprifocolare vorrebbe essere un rito propiziatorio per tornare alla luce. Lo realizzeremo a mezzo dell’estasi tecnologica garantita dalla rete, questo pneuma che corre tra gli schermi cui stiamo delegando la vita”.

Lo chiamo su Skype. Naturalmente ha il cappello. Mi dice che odia Skype, non lo ha mai usato nemmeno con le fidanzate, gli chiedo quante sono, mi dice che intendeva tutte le fidanzate che ha avuto, mi chiede perché lo costringo a questo orrore, ma io sono impegnata a spiargli il salotto che sembra quello dello zio Albert di Mary Poppins, e distrattamente gli rispondo che se vuole possiamo passare all’analogico, ma lui dice ormai è fatta, proviamoci.

C’è un vassoio di paste accanto a lei, mi sbaglio?

Ma allora lo vedi che è una sciagura, uno non può fare più niente, nemmeno vivere tre le pasterelle, senza che tutti lo sappiano. E per che cosa? Non ti sento neanche bene, anzi ti sento proprio male, la voce va e viene, ci sono i marziani.

 

È che mi trovo a Matera, ho una connessione così così.

Che bella Matera, conosci Italo?

 

Non credo.

Peccato, poi ti dico anche il cognome. Di Matera mi piace la festa della Bruna. Trovo meraviglioso che in cinque minuti la gente in strada distrugga un carro di cartapesta al quale si è lavorato per mesi. È una metafora stupenda sulla produzione. E mi ricorda sempre il finale di “Profumo” di Patrick Süskind, quando Grenouille riesce finalmente a creare l’essenza perfetta che ha cercato tutta la vita, la usa sul suo corpo e appena esce viene sbranato nei vicoli di Parigi.

 

Non è un destino dell’arte venire divorata e distrutta?

Forse. Ma a me affascina, di quel carro sventrato, il desiderio che hanno le persone di impadronirsene. M’incantano il feticismo e lo sfogo. Credo che in quel caso c’entrino più gli idoli che l’arte.

 

Pensa mai alla durata che il suo lavoro avrà negli anni? A chi arriverà e cosa sarà capace di dire tra cent’anni?

Quando si scrive si ha sempre l’illusione di poter rimanere e diventare eterni. Io mi rivolgo a qualcosa che è fuori dalla quotidianità, fuori dal tempo dell’utile, a una dimensione non temporale: non lo faccio perché mi interessa significare qualcosa per qualcuno per sempre. Non ho mai pensato a chi sarebbe andata a parlare una mia canzone. Scrivere canzoni vuol dire sempre prelevare qualcosa dal fluire del tempo che divora tutto, e innalzarla a una dimensione più verticale, sistemarla dove possa salvarsi. In questo momento, poi, la musica è così immateriale che darle un tempo e una durata è impossibile, perché la musica è come la memoria, che dura finché c’è qualcuno che ricorda.

 

Vive il presente?

Il presente non è che un modo per accedere al passato e immaginare il futuro; non ci ho mai tenuto un legame stretto né nella mia musica né nella mia collocazione nel mondo e nella vita, però so che al presente corrisponde la realtà stessa, e lo accetto. Nel nostro mondo esiste il tempo dell’utile, della produzione, del lavoro, e ne esiste un altro che è il sabotaggio di quel tempo, gli si sottrae attraverso l’erotismo, l’arte e il gioco. Questi tre elementi hanno delle caratteristiche che possono scardinare il comparto dell’utile. 

 

Perché le importa così tanto del Natale?

Questi giorni sono il collo di bottiglia dell’anno: ci si danno convegno i fantasmi, che sono gli spettri delle vite che abbiamo già vissuto, e così la separazione tra mondo reale e mondo della verità si allenta, lasciandoci riposare e ritrovare l’intimità con noi stessi. Le feste, specie quella invernali, prima ancora dei bagordi e dell’estasi, ci consentono di ricostruire una confidenza con quello che siamo e ci portiamo dentro. Non sono religioso, ma credo che la preghiera sia un momento di festa precisamente in questo senso. Pregando, si interrompe l’adesione al tempo del lavoro e ci si apre a una dimensione diversa. Mi interessa la ritualità delle feste, che nel ripetersi - come si ripete una preghiera, con le stesse parole, nella stessa posizione, in un momento preciso del giorno - offrono la chiave di accesso a quel comparto sempre così nuovo e puro, ma pure antico, atavico. È terribile che adesso quella ritualità sia solamente immaginaria, perché il calendario ha smesso di avere buchi che ci facciano collegare a una ruota più ampia di noi e del nostro tempo, una ruota circolare segnata dai ritmi della terra. E poi di questi giorni mi piace l’euforia ingiustificata, che non ha ragioni, come quella dei protagonisti di “Sulla Strada” di Kerouac, quando a un fine d’anno passano da un party all’altro per prendersi tutto quello che possono prima di tornare a casa. Con quel Kerouac in mente, vent’anni fa, nei giorni di Natale, abbiamo cominciato a suonare sui bordi di una ferrovia che si chiama Fuori Orario, e quest’anno lo faremo come sempre, anche se sarà un concerto distanziato, il primo che faccio. Non credo molto nella ripresa in video di uno spettacolo perché gli spettacoli hanno una loro magia e però in questo caso non si riprende uno spettacolo: si fa un concerto per riprenderlo. E di certo non avevo mai lavorato per creare qualcosa che fosse intimo e dovesse però consumarsi nella distanza. 

 

La musica ha senso fintanto che esiste una relazione tra esseri umani o l’ultimo uomo sulla terra, solo sulla sua isola, suonerebbe lo stesso?

È come la vecchia storia dell’uovo e la gallina: uno fa la musica per ascoltarla con gli altri o perché è bella in sé? Ho letto un’intervista divertente al mago Silvan dove lui dice che almeno uno dei due ultimi uomini sulla terra cercherebbe di meravigliare l’altro: è naturale, biologico. La meraviglia è innata in noi ma ha bisogno degli altri per poter accadere. Il primo gesto artistico, la pittura rupestre, è opera di uomini che andavano a incidere al buio, nel cavo di una roccia, nascosti nella terra, e anche se non lo facevano per mostrarsi ad altri, lo facevano per giocare, quindi divertirsi, perché l’arte è sempre giocosa. Come gli animali, che quando giocano a farsi male non si fanno male ma simulano la lotta, le battaglie, la vita, così pure l’arte è una simulazione della vita reale, e la fai su una roccia sperando che qualcuno, diciassettemila anni o un mese dopo, la trovi e la ami. Le Grotte di Lascaux sono state scoperte da quattro bambini. Quattro bambini, giocando, hanno portato alla luce l’infanzia del mondo, ti rendi conto? È magnifico. 

 

L'anno scorso, quando è uscito “Ballate per uomini e bestie”, proprio negli stessi giorni, è venuto fuori che l’uomo di Neanderthal, che di pittura rupestre è stato il pioniere - molto prima del Sapiens che dipinse l’uro a Lascaux - s’è estinto a seguito di un crollo del campo magnetico terrestre che provocò un aumento esponenziale delle radiazioni ultra violette, fatali per i Neanderthaliani e ininfluenti per i Cro-Magnon. E sa che, sempre in quei giorni, si parlò di un rischio di epidemia di peste negli Stati Uniti? In quel suo disco c’erano Lascaux e la peste, l’origine del mondo e l’apocalisse. E c’erano certi versi che, riascoltati ora, sono una descrizione perfetta della pandemia: lei parlava del rapporto dell'uomo con la natura e diceva che era la storia di una lacerazione, di un limite infranto. Va bene che lei è saggio e fuori dal tempo presente, ma non sarà anche un Tiresia? Non saranno indovini gli artisti?

Indovini e sciamani sono parenti dei ciarlatani. Dimostrano che l’uomo ha più bisogno di credere che di conoscere e siccome a profeti e indovini non è mai andata bene, preferirei non entrare in questo novero. Ho capito subito, sin da piccolo, che la mia arte era prebiografica: tutto ciò di cui scrivevo, si avverava. Scrivevo di un amore che finiva male e puntualmente un amore finiva male. Poi mi sono messo a fare biografie più complesse e le regole sono rimaste le stesse, e non perché io sia un indovino: per dire cosa succederà basta osservare bene tutto e parlar vago.

 

In Ballate, al Loup Garrou fa dire: “Voglio lasciare il reale ed entrare nel vero”.

Il mannaro ha un mandato di verità, non teme di trasformarsi ma ha bisogno di farlo. Se non si trasforma in bestia, l’uomo non può accedere al vero, perché è stordito dal reale ed è inconsapevole della scelta arbitraria e convenzionale che esso rappresenta. Mi piace l’idea che si aveva nel Medioevo: la verità sta da un’altra parte e anche se quello che vediamo è reale, la realtà non è la verità. Noi immaginiamo la realtà, diceva Fellini. Con i sensi non facciamo che sperimentare le cose che immaginiamo.

Ci sono 12 notti in queste feste: un tempo, il senso di queste notti stava nella transizione dal reale al vero che il folklore e la religione hanno raccontato e rappresentato meravigliosamente. Io provo a recuperare lo spirito di quel folklore. Borges diceva che la religione è una branchia (proprio branchia!) della letteratura fantastica: lo penso anch'io e cerco il senso più intimo e profondo della nostra esperienza del vivere in tutto ciò che il folklore ci ha tramandato. In Irpinia si dice che si trasforma in lupo mannaro chi nasce la notte di Natale: è una punizione per l’impudenza di venire al mondo nella notte del Signore. Fare i concerti di Natale al Fuori Orario è sempre stato anche un modo per tirar fuori il licantropo che è dentro di noi, durante un concerto rituale. In uno spettacolo è interessante anche questo: lavorare sulla ritualità e darsi delle occasioni per esercitarla.

 

Ha parlato di mondo della Verità: nel folklore calabrese è il mondo dei morti.

Non solo in quello calabrese: è un'idea diffusa in tutto il sud, dove della connessione tra vita e morte, iscritta già nella parola uomo, c'è una consapevolezza ancora viva e presente. Da quella consapevolezza è derivata una tradizione. La morte è verità perché non possiamo conoscerla, ma durante le feste dell’inverno c’è la possibilità, talvolta allegra, di esorcizzarla e persino di giocare con lei. Non è un caso che nella ritualità antica la morte si presenti sotto forma di bambini che vanno a casa dei vivi a fare la questua. Quando penso a come sono stretti e uniti il vivere e il morire, mi viene subito in mente quello che ci siamo inventati con le ossa: le abbiamo rese perfino generatori di suoni. Del resto uno scheletro è la radiografia, estremamente evocativa, di un’intera esistenza.

 

Ricorda che bambino è stato?

Ricordo solamente che non si era bambini allo stesso modo ed è ancora così, credo che purtroppo sarà sempre così. C’erano quelli che non avevano il colletto, i primi e gli ultimi della classe. Nell’infanzia le passioni sono prive di mediazione culturale: a un ragazzino devi insegnare che non si dice una cosa, visto che lui invece quella cosa la dice. E basta guardare due bambini, un fratello e una sorella, per capire che il messaggio di Cristo non è attuabile se non dopo un lungo lavoro di costruzione culturale che ne contenga la mostruosità. Siamo mostri tutti. La fraternità e molti altri buoni sentimenti sono fatti culturali, invenzioni, propositi. A me, però, la ferinità dell’infanzia piace da matti: così immediata, sincera, radicale.

 

Cos’è raccontare per lei?

Inventare una storia davanti al fuoco. C’è un libro di Agamben, “Il fuoco e il racconto”, che spiega bene come abbiamo perso il fuoco e, con esso, la possibilità di sedercisi intorno a raccontare storie. Al posto del fuoco abbiamo il riscaldamento, che è più comodo, e al posto del racconto abbiamo la televisione, pure quella più comoda e semplice. E così del racconto cosa ne è? Quest’anno ci siamo abituati a una parola terribile e guerresca, coprifuoco, che però ha un’origine domestica. Prima dei termosifoni, il fuoco da coprire era quello del focolare: coprirlo significava anche custodirlo, fare in modo che segnalasse la nostra presenza e, insieme, tenesse vivo il calore per mantenerci in vita.

 

Immortale vorrebbe esserlo?

Se mai adesso la questione che si pone è la pretesa di immunità, che è la cosa più inumana che c’è. L’uomo non è immune da niente ed è nello sporcarsi che si fortifica. Noi invece ci plastifichiamo, disinfettiamo e perdiamo così il contatto con la realtà del mondo, la cui concretezza ci è stata sbattuta davanti agli occhi da un virus minuscolo e invisibile. Quella concretezza ci obbliga ora a rituali che ai distratti sono preclusi. Per esempio, io fatico a ricordarmi che devo lavarmi le mani in continuazione.

 

E con la mascherina come va?

Ma sai che agevola tante cose? Consente di nascondersi meglio, passare inosservato, rinunciare alla sarabanda delle feste.

 

Lei è sempre travestito, mascherato. Quanti Vinicio è lei? Quante creature? Posso usare la parola creatura? Credo che la descriva con esattezza, se è possibile essere esatti su Capossela.

Mi piace la parola creatura: in molti dialetti significa bambino. Mi travesto perché è un modo molto artigianale di fare teatro ambulante, di giocare con i personaggi delle canzoni che posso accompagnare. Ma il bello è che questa artigianalità è così semplice e povera che posso anche farne ameno. È facilissimo allestire un palco con dei musicisti travestiti da musicanti di Brema e uno sfondo per le ombre cinesi, ed è altrettanto facile smontarlo e rinunciarci. Le canzoni devono poter stare in piedi anche con un solo strumento: se e solo se reggono così, possono diventare appendipanni e reggere un arsenale. Meravigliare è importante, ma lo si deve poter fare con poco: per questo mi attraggono i maghi. Christopher Wonder è un mio amico mago molto poetico: il suo arsenale è semplice, pieno di cappelli, mantelli. Certo poi c’è anche David Copperfield, avveniristico e molto attrezzato, super tecnologico, ma io preferisco il mio Wonder, che come me dà poesia a oggetti di recupero. Ho una tendenza animista nei confronti degli oggetti ed è una disgrazia perché non li considero cose bensì orfani abbandonati: finisco sempre con l'adottarli. Presto verrò seppellito dalle cianfrusaglie di cui m’innamoro e mi prendo cura.

 

Se avesse il potere di ipnotizzare qualcuno, cosa gli farebbe fare?

Non saprei.

 

Neanche se potesse ipnotizzare Giuseppe Conte?

A lui passerei il pendolino così magari riesce a ipnotizzare qualcuno che gli sia utile ipnotizzare. A me interessa suonare, sempre, anche adesso, in questo nuovo concerto per assenti. È un’esperienza nuova per me ed è anche un modo per mantenere un impegno, garantire continuità a una bella storia che mandiamo avanti da anni: le cose esistono quando hanno una storia che dura da tanto tempo e che qualcuno si è assunto l'onere di conservare. Non so se proverò più gioia o più malinconia nel trovarmi al Fuori Orario vuoto, senza pubblico.

 

Non sono legate gioia e malinconia?

Eccome. Si travasano l’una nell’altra, sempre e continuamente. Non possono stare una senza l’altra.

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  • Simonetta Sciandivasci
  • Simonetta Sciandivasci è nata a Tricarico nel 1985. Cresciuta tra Ferrandina e Matera, ora vive a Roma. Scrive sul Foglio e per la tivù. È redattrice di Nuovi Argomenti. Libri, due. Dopodomani, tre.