(foto Ansa)

cattivi scienziati

Perché la "variante ceca" del virus ha fatto meno rumore di quella inglese

Enrico Bucci

In ogni paese è possibile identificare varianti emergenti del virus. Sbagliato farne un argomento da “bar internet”

Il 21 dicembre, nei database di Gisaid erano depositate 275.872 sequenze genetiche (di cui 274.449 complete) di isolati di Sars-CoV-2 provenienti da ogni parte del mondo. Di queste, 125.689 (di cui 125.631 complete), ovvero oltre il 45 per cento, provenivano dalla Gran Bretagna. In parole semplici: oltre il 45 per cento di tutte le varianti conosciute di Sars-CoV-2 proviene da un grande sforzo di sequenziamento effettuato in Gran Bretagna, a partire da aprile di quest’anno. Considerando che Sars-CoV-2 muta continuamente, a velocità maggiore quando si trova in una fase espansiva (semplicemente perché il tasso di mutazione dipende dal numero di eventi di replicazione, e quindi dal numero di individui infettati), dove credereste che sia più possibile identificare nuove varietà del virus? Ovviamente in Inghilterra, e infatti così è avvenuto. Vuol forse dire che la nuova variante è originata per la prima volta in quel paese? Niente affatto; vuol solo dire che in quel paese è stata trovata prima, perché si guarda di più.

 

 

E infatti, in realtà, virus appartenenti al gruppo impropriamente chiamato “nuova variante inglese” sono stati ritrovati in molte parti del mondo, sia prima che dopo l’annuncio di qualche giorno fa. Dall’Italia, per confronto, provengono a oggi solo 976 sequenze virali diverse (di cui 945 complete) depositate in Gisaid; per questa semplicissima ragione: è difficile che si troverà nel breve periodo una qualunque “variante italiana” di qualche significato (nel senso che abbia una diffusione significativa fra i pazienti). Naturalmente, non c’è nulla di cui vantarsi: questo vuol solo dire che, se davvero dovesse emergere (o arrivare) una variante peggiore del virus in Italia, noi non ce ne accorgeremmo che a disastro avvenuto, nonostante tutte le promesse e tutti gli sforzi profusi variamente nel dotare il paese di risorse per il sequenziamento genetico (in ultimo quanto si promise a suo tempo di fare con il Tecnopolo di Milano).

 

Se si comincia davvero a guardare, in ogni paese è possibile identificare “varianti emergenti” del virus; è nella natura della dinamica virale che nuovi genomi appaiano, prendano il sopravvento per competizione diretta con gli altri, e poi eventualmente spariscano. Per esempio, come ha fatto osservare l’ottimo Marco Gerdol, ricercatore presso l’università di Trieste, a partire da settembre nella Repubblica Ceca una mutazione ben nota, la mutazione nella proteina spike N439K (che oltretutto conferisce resistenza ad alcuni anticorpi monoclonali) è passata dall’essere presente all’inizio di settembre nel 20 per cento della popolazione a circa il 75 per cento alla fine di ottobre, dunque nell’arco di 8 settimane. Si tratta di un incremento spettacolare, paragonabile a quello che si è osservato sul suolo inglese per il ramo evolutivo B.1.1.7 (quello di cui le cronache di questi giorni si affannano a parlare); eppure, nessuno ha mai sentito parlare di “variante ceca” o di pericoli per il vaccino. Non perché quella variante non sia pure essa da monitorare, visto oltretutto il vantaggio parziale che conferisce in termini di evasione immune ed essendosi trovata oltretutto anche nei visoni danesi; ma solo a causa del nostro bias di osservazione (dovuto al molto maggior numero di individui sequenziati in Gran Bretagna) e di comunicazione (dovuto al fatto che la variante è stata annunziata in modo spettacolarmente oscuro e ambiguo dal ministro della Salute di un grande paese occidentale).

 

A questo punto, direi che dovrebbe essere chiaro un fatto semplicissimo: è perfettamente legittimo, auspicabile e giustificato ricorrere al monitoraggio il più possibile esteso mediante sequenziamento genetico, per identificare nuove mutazioni e nuove varietà emergenti. E’ altrettanto giusto che, nel caso anche solo di espansione apparente di una certa varietà, si attuino prudentemente tutte le misure di contenimento previste, anche prima di sapere in realtà quale sia il pericolo reale di ciò che si sta osservando, così come si sta facendo in Inghilterra ed in Europa. Tuttavia, tutto questo deve costituire una preoccupazione per gli esperti e gli epidemiologi, non diventare un argomento da “bar internet” per chi non è in grado di contestualizzare la preoccupazione degli esperti, che è sempre rivolta a ottenere maggiori informazioni ed è focalizzata su aspetti tecnici, indisponibili alla stragrande parte della popolazione. Né può diventare un balletto sui giornali, con il classico ciclo di notizie allarmistiche, seguite da smentite nei giorni successivi, che in entrambi i casi sono solo utili a catalizzare l’attenzione di chi non può capire (sia perché chi scrive è a sua volta tecnicamente ignorante, sia perché chi legge non può andare oltre ciò che già sa). Balletto di cui, è bene ribadirlo, sono responsabili gli stessi ricercatori, quando non distinguono tra un microfono in una sala conferenze e un microfono di un giornalista.

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