Foto LaPresse

Ma quali lobby e interessi finanziari, la disputa sul clima è tutta tra scienziati

Umberto Minopoli

Un libro ristabilisce i termini del conflitto tra gli esperti divisi

"Mai contare sul consenso degli esperti riguardo al futuro. Gli esperti sono degni di essere ascoltati sul passato. La futurologia, invece, è una pseudoscienza”. Così Matt Ridley in una lectio magistralis tenuta nell’ottobre del 2011. Si attaglia, perfettamente, alle attuali dispute sui cambiamenti climatici. Sarebbe utile uscire da discussioni falsate, da partigianerie e bias comunicativi che distorcono la percezione del dibattito sul clima. A partire dalla credenza più comune: quella secondo cui la totalità della comunità scientifica sosterrebbe le previsioni catastrofiche dell’evoluzione del clima nei prossimi decenni e la causa antropica dei cambiamenti (cui è connessa l’urgenza della drastica decarbonizzazione entro i primi trent’anni del secolo) delle attività umane. A questa presunta unanimità della scienza si opporrebbe una schiera di non esperti, fondamentalmente politici e interessi legati alle fonti fossili, scettici e negazionisti circa le conclusioni della scienza. Insomma: un conflitto tra scienza e lobby economiche. Un travisamento della realtà. Un libro a più mani, Clima basta catastrofismi (edizioni 21mo secolo, 2018) lo chiarisce e ristabilisce i termini della disputa sul clima: non è un conflitto tra scienza e lobby. Ma un dibattito interno alla comunità scientifica. Gli autori sono studiosi, scienziati, esperti, accademici di varie discipline. E le loro obiezioni, scetticismi e contestazioni sono argomentazioni scientifiche rigorose che esulano del tutto da motivazioni politiche, ideologiche o di interessi economici. Il libro circoscrive, anzitutto, l’ambito delle controversie. Non c’è dissenso tra gli esperti, a differenza di ciò che si crede comunemente, sul punto di partenza: il global warming, la constatazione che l’ultimo secolo e mezzo abbia registrato un aumento globale delle temperature terrestri di 0,9 gradi. Questo è un fatto, prodotto di studi e osservazioni, che nessuno contesta. Come dire: non ci sono su questo negazionisti o scettici.

 

Semmai, il libro si chiede: un aumento in 160 anni di 0,9 gradi giustifica davvero un giudizio di “cambiamento globale e inedito” del clima piuttosto che una sua sostanziale stabilità”? Ma questo non è essenziale. Dove si appuntano, invece, perplessità e scetticismo? Sostanzialmente su quegli aspetti del dibattito climatico che riguardano le cause del riscaldamento, le previsioni sulla possibile evoluzione nel tempo delle temperature, le prescrizioni imposte per la mitigazione di esse. L’oggetto delle controversie, ripetiamo, è interno alla comunità scientifica: tra la climatologia ufficiale dell’Ipcc (Intergovernmental Panel on Climate Change), il foro scientifico formato dalle Nazioni Unite nel 1988 per studiare le basi scientifiche, le cause e gli impatti del cambiamento climatico e una fitta letteratura, altrettanto scientifica, che discute, contesta e diffida di alcune delle argomentazioni dell’Ipcc. Il libro ricapitola metodi e sistemi di ricerca dell’Ipcc e oppone, alle sue conclusioni, argomentazioni e obiezioni “scientifiche”. Le argomentazioni degli autori usano gli stessi apparati teorici, letteratura, archivi di dati, procedure, metodologie e tecniche, su cui si basano i report dell’Ipcc. Arrivando, però, su punti sostanziali a conclusioni diverse. Gli autori ricordano come alle loro stesse conclusioni giungano studi, ricerche individuali, di gruppi, enti di ricerca che testimoniano la mancanza di quella supposta unanimità della comunità scientifica sulle conclusioni dell’Ipcc. La cui autorevolezza è data essenzialmente, ricordiamolo, dalla designazione da parte di un organismo politico (due agenzie dell’Onu e dei governi che ne fanno parte). Per il resto la comunità scientifica, in senso largo, è assai articolata nelle sue opinioni. Cosa deve valere, si chiede il libro, in casi come questi? Quale opinione è assolutamente valida?

 

Nel fronte degli ambientalisti militanti, per dirimere le controversie scientifiche sul clima, taluni si appellano a un presunto principio di maggioranza. Una bestemmia per la scienza. Non esiste, ricordano gli autori, alcuna procedura corretta e plausibile per decretare a maggioranza la verità di un assunto scientifico. Per lo statuto proprio della scienza. Non fosse stato così le rivoluzioni scientifiche, che nascono spesso dall’emergenza geniale di singoli scienziati che smentiscono il consenso maggioritario, non sarebbero avvenute. Pensiamo a Galileo rispetto ai tolemaici o a Einstein rispetto ai newtoniani. Ciò che fa fede, nella scienza, non è il principio di maggioranza ma solo il dato sperimentale. Si chiama peer review: è la procedura istituzionale che decide, nella comunità scientifica, la validità di un assunto, ipotesi, teoria. E’ l’unico vero statuto riconosciuto nella ricerca scientifica. Afferma che un dato sperimentale, una teoria, un’ipotesi scientifica è valida se l’esperimento da cui nasce è ripetuto e riprodotto, più volte e in luoghi diversi, fornendo i medesimi, concordanti risultati. E’ grazie a questo statuto della scienza che possiamo ragionevolmente affermare che un vaccino produce una risposta immunitaria protettiva mentre l’omeopatia ha effetti nulli. Per il clima è lo stesso. Ci sono dati osservativi su cui la peer review porta a un consenso certo: il clima della Terra si è riscaldato negli ultimi 160 anni. Ci sono altri aspetti e dati su cui il consenso non è unanime. Anche perché non è semplice sugli aspetti climatici la peer review. Ad esempio: il futuro del clima non si può studiare in laboratorio (come un virus o un vaccino). Sarebbe appunto, come scrive Ridley, “pseudoscienza”.

 

L’osservazione polemica principale che il libro muove alle posizioni dell’Ipcc riguarda la metodologia prescelta, per figurare l’evoluzione (catastrofica) del clima e le variabili assunte alla base dei modelli. Le previsioni Ipcc privilegiano, largamente, modelli matematici computerizzati a poche variabili. Essenzialmente a una variabile, la CO2 antropica che, a seconda delle diverse ipotesi di quantità emesse, portano a schemi di aumento di temperature più o meno catastrofici. Il libro lamenta l’assoluto semplicismo e riduzionismo di tale metodologia. Lo schema Ipcc sovrastima il contributo della CO2 antropica (in fondo lo 0,76 per cento del totale di questo gas serra in atmosfera) e sottostima, invece, il feedback sul clima terrestre di altre “forzanti” climatiche: quelle radiative solari, in primo luogo. Ma non solo. Gli autori, sulla base delle loro discipline, contestano nei modelli Ipcc l’utilizzo non ancora sufficiente e largamente incompleto degli studi scientifici comparati e delle discipline fisiche, astronomiche, geologiche e paleontologiche nell’analisi di quelle che sono chiamate le “forzanti climatiche”, i fattori concomitanti che influiscono sul clima e sui suoi cicli temporali: i dati forniti dalle discipline di scienza della terra (movimenti della litosfera, della stratigrafia del sottosuolo terrestre, della geomorfologia della tettonica a placche, dall’oceanografia, dal vulcanismo), dalla storia agroalimentare, dalla fisica dell’atmosfera, dalla astrofisica del sistema solare (attività del sole, effetti e influenze della rotazione terrestre, del moto di rivoluzione, delle oscillazioni del campo geomagnetico, raggi cosmici, nutazione della luna). Il clima terrestre è un sistema macroscopico complesso prodotto, nel tempo, del feedback di tutte queste influenze, della casualità e ciclicità di ognuna di esse. Lo studio comparato dei dati provenienti da tutte queste discipline revocherebbero in dubbio le tre principali assunzioni del climatismo ufficiale dell’Ipcc: la tesi dell’eccezionalità e del carattere inedito del warming attuale (ci sono stati periodi più caldi nel passato); la sovrastima della CO2 antropica come causa esclusiva del riscaldamento; l’aleatorietà delle previsioni “allarmanti” di aumento delle temperature. Non manca, nel libro, un istruttivo capitolo dedicato al tema veramente decisivo del presente e del futuro delle politiche climatiche: il “mercato dell’anidride carbonica”, la mastodontica finanza verde nata con l’accordo di Kyoto del 1997: un colossale sistema di finanziamenti – titoli di trading, titoli di compensazione, sostegni a progetti energetici (176 miliardi globali di cui oltre 20 miliardi nella area Ue). Il libro mette in luce la trasformazione in atto in questa spesa e di cui poco si parla: una marcata finanziarizzazione in cui le transazioni e la speculazione sui mercati borsistici prevalgono significativamente sugli obiettivi e i progetti climatici. Su tali aspetti la lettura del libro fornisce un contributo alla comprensione del fenomeno più attuale in campo di politiche climatiche: i segni di una emergente insostenibilità sociale (le vicende francesi) delle costose e inefficaci politiche antiemissive.

Di più su questi argomenti: