Un disegno della sonda Juno in prossimità di Giove (foto LaPresse)

Che cosa stiamo cercando con la sonda Juno nell'orbita del pianeta Giove

Paolo Galati
Come previsto (santa fisica classica o almeno beata) la sonda Juno - lanciata nel 2011 – ha raggiunto il pianeta più grasso del nostro Sistema Solare rilanciando nuovamente la Nasa verso l’esplorazione spaziale con il programma intensivo New Frontiers.

Come previsto (santa fisica classica o almeno beata) la sonda Juno - lanciata nel 2011 – ha raggiunto il pianeta più grasso del nostro Sistema Solare rilanciando nuovamente la Nasa verso l’esplorazione spaziale con il programma intensivo New Frontiers. Il programma New Frontiers ha portato nel Luglio 2015 la sonda New Horizons a due passi da Plutone dopo un viaggio di quasi 9 anni riuscendo a spedire immagini Ultra HD del pianeta più insignificante tra quelli solari. Ora, un anno dopo, tocca alla sonda Juno munita di costosissimi pannelli solari: si è appena stabilita su un’orbita specifica attorno a Giove cercando di fare meglio di altre sonde  – costosissime anche quelle. In futuro New Frontiers – salvo smentite – dovrebbe raggiungere un asteroide con un’altra sonda, questa volta a data da destinarsi. Ma perché la Nasa spedisce di nuovo una sonda sul lottatore di Sumo del sistema solare? Cosa avrà di così interessante? Perché torna alla ribalta?

 

Avete notato che, con cadenza quasi settimanale, si sente la notizia della scoperta di un pianeta extrasolare? Un pianeta extrasolare è un pianeta che orbita attorno a una stella ovviamente diversa dal nostro Sole. Dal 1988 ne sono stati individuati più di 3.000: in media si pensa che debba esistere almeno un pianeta per stella. E se prendessimo 5 stelle simili al nostro Sole dovrebbe esserci almeno un “pianetino blu” in grado di ospitare un “clima” come quello terrestre. Scoprire un pianeta extrasolare non è semplice data la distanza e data la luminosità al confronto con le stelle: un pianeta è un pianeta. Sono le stelle che brillano di più.

 

 

Se una zanzara si appoggiasse sull’abbagliante destro di un’auto non la potremmo scorgere a 20 km di distanza. E se la zanzara non passasse mai davanti al faro dell’auto? Con calcoli incredibili e attese snervanti in qualche modo si riescono a “osservare” indirettamente i pianeti extrasolari. Si misurano le masse e in molti casi le composizioni chimiche. Poi arriva il 1995 e si scopre il primo pianeta “gioviano caldo” (in inglese suona meglio, “hot jupiter”). Viene battezzato 51 Pegasi b. Ruota attorno alla sua stella come un pazzo: in 4 giorni terrestri fa quello che la terra impiega in 365. L’aggettivo “caldo” si riferisce alla temperatura elevata di questi oggetti per i quali la natura è stata davvero sfortunata. Si chiamano gioviani perché le caratteristiche principali ricordano molto il pianeta studiato a fondo da Galileo. E siccome ce ne sono davvero tanti (e non solo caldi, intendiamoci) la Nasa ha bisogno di osservare Giove perché non abbia più segreti.

 

E non dimentichiamoci che un pianeta come Giove è stato fondamentale: la sua attrazione gravitazionale domina su tutti gli altri pianeti facendo da “scudo” per la nostra piccola Terra. Asteroidi e comete saranno più propensi ad andare a sbattere su Giove invece di creare bellissime sceneggiature per fantascientifici film hollywoodiani. I pianeti extrasolari hanno un piccolo difetto: si trovano a grandissime distanze da noi. Le sonde stakanoviste degli anni 70’ e 80’ (Voyager e Pioneer) stanno per uscire dal nostro sistema solare. La Pioneer 10 pare sia diretta verso la stella principale del Toro – Aldebaran – e alla velocità attuale potrebbe vederla da vicino tra 2 miliardi di anni. Capite bene come la distanza relativa tra le stelle sia un grosso problema. Molte delle sonde spedite dalla Nasa non sono più attive e se la stanno passando male al freddo e al buio: alcune portano della placche con disegni, foto e scritture in lingue diverse perché non si sa mai. Su queste distanze un viaggio con uomini (o donne) a bordo di astronavi diventa improponibile.

 

A oggi la permanenza più lunga nello spazio in una singola missione è stata quella di Poljakov, astronauta russo in orbita per 438 giorni a bordo della stazione spaziale russa MIR tra il 1994 e il 1995. Poljakov – come la Bullock in “Gravity” – dopo il suo atterraggio in Kazakistan il 22 marzo 1995 è stato in grado di camminare autonomamente. Pochi passi sia chiaro, ma dopo 14 mesi in assenza di gravità non si butta via nulla. Ebbene, in overdose di adrenalina pare che le sue prime parole siano state:“possiamo andare su Marte”. Giove è centomila volte meno ospitale di Marte, addirittura sarebbe impossibile anche solo camminarci a piedi sulla superficie. Accontentiamoci – per ora – delle sonde automatiche come Juno; lei sì che ha finalmente trovato un compagno mitologico degno di questo nome: completerà la sua missione dopo una quarantina di orbite. Nel febbraio del 2018 – se tutto va come deve andare –  piena di strumentazione sofisticata in parte made in Italy cadrà sulla superficie di Giove. E poi chi lo sa, magari nel 2046 i mondiali di Calcio saranno i primi tenuti su Giove e visto che non si potrà ballare sul posto (per la gravità) i rigori si tireranno con le mani.

 

Giove ha tanti segreti che riguardano la formazione di un sistema solare come il nostro e la Nasa scalda i motori per stringere il cerchio su possibili candidati che possano ospitare altre forme la vita nello spazio. In “Contact” la bellissima Ellie (Jodie Foster) dice a una platea di bambini: “se ci fossimo solo noi, sarebbe un spreco di spazio… giusto?”. Da bambino un po’ cresciuto, provo a rispondere parafrasando Eugenio Montale: “Tutti i pianeti portano scritto: più in là”.

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