(foto da Wikimedia Commons)

cattivi scienziati

Vaiolo delle scimmie: perché è presto per parlare di epidemia

Enrico Bucci

Il numero di casi è esiguo e i sintomi non appaiono clinicamente gravissimi. Cosa sappiamo dell'ultimo virus trasmesso dagli animali

In queste ore l’attenzione del mondo e in particolare del pubblico di quei paesi in cui si sono manifestati dei casi, fra cui l’Italia, si è appuntata sul virus del vaiolo delle scimmie. Il nome, innanzitutto, ci dice che siamo davanti ad un virus imparentato con quello del vaiolo – il triste flagello dei secoli passati, con una letalità che arrivava al 30% soprattutto fra i bambini, il cui studio ha portato alla formulazione dei primi vaccini della storia e all’unico caso riuscito di eradicazione totale di un patogeno virale. Il vaiolo delle scimmie, detto così perché originariamente identificato in questi animali, ma in realtà diffuso fra molti altri, ha una letalità fortunatamente molto minore: a seconda del ceppo, questa oscilla tra lo 0.1% e l’11%, almeno se guardiamo alle due varianti maggiori sin qui note, responsabili di epidemie in Africa negli anni passati.

 

Si tratta di un virus zoonotico che da tempo gli scienziati hanno indicato come un potenziale pericolo emergente; è del 2004 un lavoro su una rivista del gruppo Lancet che infatti qualificava il vaiolo delle scimmie come zoonosi emergente e quindi non sorprende l’attenzione che sia riservata agli odierni casi di trasmissione da uomo a uomo osservati in diversi paesi. Proprio i ricercatori hanno spesso lamentato la mancanza di attenzione al vaiolo delle scimmie: nel 2018, in una review ad esso dedicata, troviamo scritto che “i focolai di vaiolo delle scimmie sono raramente segnalati, mal gestiti e poco descritti, portando a un quadro incompleto dell'importanza della malattia. Il vaiolo delle scimmie è la malattia da poxvirus più patogena dopo il vaiolo, ma non ha mai ricevuto un'attenzione adeguata per evitare che diventi un'epidemia.”

 

A questo punto, quindi, la domanda è d’obbligo: siamo davanti ad una epidemia, con potenziale magari pandemico? Per rispondere, possiamo guardare ai dati sin qui resi pubblici in maniera disordinata in varie parti del mondo a partire dalla fine di aprile: ad oggi, ho potuto contare 117 segnalazioni, di cui 61 casi confermati ed i rimanenti sospetti, localizzati in una dozzina di paesi diversi al di fuori dell’Africa. In particolare, al momento abbiamo 2 segnalazioni dall’Australia, 3 dal Belgio, 22 dal Canada, 9 dall’Inghilterra, 1 dalla Francia, 1 dalla Germania, 3 dall’Italia, 34 dal Portogallo, 39 dalla Spagna, 1 dalla Svezia e 2 dagli USA.
Di questi 117 casi sospetti o segnalati, sappiamo che 91 sono maschi, mentre per gli altri non si hanno dati pubblici; l’età dei 54 casi per cui il dato è riportato è compresa fra 20 e 55 anni, con una larga prevalenza nella fascia tra 20 e 40. Per 53 individui conosciamo lo stato di ospedalizzazione: 36 non sono ospedalizzati e 17 sono ricoverati. I sintomi, riportati per 50 individui inclusi alcuni ospedalizzati, consistono nelle classiche ulcerazioni varioliformi, anche di tipo genitale, in febbre ed in diversi tipi di eruzioni cutanee.

 

Infine, un’informazione importante: per 49 individui è stata determinata l’informazione relativa a viaggi recenti, e fra questi solo 8 provenivano da località estere rispetto al paese in cui si è manifestato il problema (di cui uno solo dall’Africa, in Nigeria), il che è forte indicazione di trasmissione a livello locale, visto che, fra l’altro, quasi tutti i casi non sono connessi epidemiologicamente, e quindi implicano la presenza di altri casi nelle nazioni in cui sono stati rilevati.
Cosa possiamo dire da queste precoci, ma scarne informazioni, riferite a pochi individui? Innanzitutto, che vi sono diverse catene di trasmissione in corso in molti paesi differenti. L’ampiezza della circolazione virale, tuttavia, non è nota; in più, considerando la fortissima prevalenza di giovani maschi, e fra questi di molti che hanno avuto contatti sessuali con altri maschi, è possibile che la propagazione del virus preveda ancora contatto stretto, come avvenuto finora in tutti i casi di focolai di vaiolo delle scimmie. In altre parole, seppure la trasmissione da uomo ad uomo sembra essere maggiore di quanto osservato al di fuori dall’Africa in precedenza, potrebbe pur sempre essere abbastanza difficile; questo è uno dei primi punti in accertamento, che non può oggi essere preso per assodato prima di avere dati decenti da un punto di vista epidemiologico.

 

Inoltre, non sappiamo ancora di fronte a quale variante siamo: se, come è possibile, si tratta di una variante nuova, bisogna aspettare qualche giorno per avere i dati di sequenziamento e farsi una prima idea della sua possibile letalità, sulla base della sua similitudine con ceppi già noti. Al momento, in ogni caso, i sintomi non appaiono clinicamente gravissimi; questo, seppure potrebbe trattarsi di un bias di osservazione dovuto al campione sparso e poco significativo, sarebbe in linea con quanto sappiamo per le precedenti epidemie extra-africane del virus. In ogni caso, due sono le notizie che il lettore deve tenere a mente: finora, il vaccino per il vaiolo umano ha neutralizzato la minaccia (il che è in linea con la giovane età della gran parte dei soggetti contagiati, nati in epoca in cui il vaiolo era stato debellato e la vaccinazione obbligatoria sospesa) ed esiste poi un farmaco antivirale efficace specifico già approvato in Europa, il tecovirimat. Questo è, in breve, quel che sappiamo oggi: direi quindi di lasciare agli specialisti il loro lavoro di predire il potenziale pandemico di questo nuovo ceppo, aspettando con serenità le prime conclusioni solide, senza lasciarci trascinare nel fermento di discussioni senza costrutto di questo periodo

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