Il certificato vaccinale adottato da Israele (foto EPA)

discriminare che?

L'assurda polemica egualitaristica contro il green pass

Carlo Alberto Carnevale Maffè

Altro che immatura e divisiva: l'idea di un passaporto vaccinale proposta da Commissione europea e governo italiano è una prassi consolidata da oltre un secolo

Correva l’anno 1897. Per autorizzare i pellegrini a visitare il tempio indiano di Vithoba a Pandharpur, le autorità delle colonie britanniche introdussero un “passaporto vaccinale” per la peste. Anche allora, come oggi, era chiaro che servisse una certificazione sanitaria per garantire un equilibrio tra libertà privata e salute pubblica. Suona quindi alquanto surreale la reazione di chi oggi si straccia le vesti per il “green pass” della Commissione europea (e per la sua versione italiana voluta dal governo Draghi), definendolo un’idea immatura e divisiva, quando si tratta di prassi consolidata da oltre un secolo, per non citare altri esempi di lasciapassare sanitario che risalgono addirittura al medioevo. Più controversa è l’obiezione sui possibili effetti di discriminazione legati al passaporto vaccinale.

Se per discriminazione si intende ingiustificata diversità di trattamento per soggetti aventi uguali diritti, l’argomento dei critici sbaglia bersaglio. La discriminazione non può in alcun modo essere riferita al rilascio del passaporto vaccinale, perché si tratta della mera attestazione di un fatto: la protezione immunitaria (pur temporanea e parziale) e/o la negatività a un test. Un certificato che, nel rispetto della privacy, riduca le incertezze e le asimmetrie informative nelle transazioni pubbliche e private, è indiscutibilmente una scelta razionale in termini di social welfare: consente un equilibrio superiore nell’incontro tra domanda e offerta di servizi, dal turismo alla ristorazione, dall’attività sportiva a fiere e commercio, contemperando libertà economica e tutela della salute. Lo sappiamo da secoli. Peraltro, la legittima concessione di un passaporto a un soggetto non solo nulla toglie a chi (ancora) non ce l’ha, ma consente di riprendere progressivamente le normali attività sociali ed economiche, con effetti positivi per tutti. La discriminazione può semmai verificarsi a valle, nei criteri di accesso a luoghi o servizi, o a monte, nella disponibilità di vaccini o di test. I critici dovrebbero prendersela non con il passaporto in sé, bensì coi doganieri che non lo accettano o con i burocrati che ne rallentano o impediscono il rilascio.

 

Fuor di metafora, se mai ci fosse discriminazione sarebbe da ricercarsi nell’arbitrario criterio con cui le autorità impongono il proprio monopolio distributivo e decidono le priorità vaccinali in contesti di scarsità di dosi, non nella semplice certificazione di tale atto. È lo stesso fenomeno riscontrato all’inizio dell’epidemia, quando a essere scarsi erano i tamponi erogati in monopolio pubblico. Oppure sarebbe discriminatorio richiedere il passaporto vaccinale per spostamenti per lavoro o necessità, perché escluderebbe chi non ha ancora avuto l’opportunità di vaccinarsi e chi non ha potuto, per vincoli logistici o economici, effettuare un test. Quindi a discriminare sono semmai la cattiva organizzazione e la pessima politica. Il “green pass”, invece, è un semplice strumento di libertà e responsabilità.

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