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lockdown primaverile?

Gli altri vaccini che servono se il virus ci ruberà una seconda primavera

Sergio Belardinelli

In campo le nostre risorse morali e culturali: oltre a centomila morti e milioni di emarginati socioeconomici, la pandemia ha anche messo a nudo la fragilità di tutti

Tra i tanti lati brutti di questa pandemia c’è anche che si inasprisce sempre a primavera. La “stagion lieta” per eccellenza, la stagione sulla quale gli uomini sono soliti spendere fiumi di parole per celebrare il ritorno della vita, la bellezza e i propositi più emozionanti e illusori, questa stagione rischia di diventare invece un simbolo di intorpidimento, di paura e quasi di morte. Il virus tornerà dunque a colpire duramente? Ci aspetta un altro lockdown primaverile? Quanti morti dovremo ancora seppellire?

 

Sono domande che probabilmente ci poniamo tutti, rispondendoci tutti più o meno allo stesso modo a seconda dell’umore: sì il virus si farà più virulento e dovremo di nuovo chiuderci in casa; ma no, non sarà come l’anno scorso, la variante inglese sarà forse più contagiosa ma certamente meno letale; dobbiamo avere pazienza e fiducia, prima o poi i vaccini ci saranno per tutti, e allora riprenderemo la vita di sempre. Sì, ma intanto, tra un dpcm e l’altro, anche questa primavera se ne sarà andata, mi capita sovente di dire tra me e me, con l’aggiunta di un’esclamazione infantile e liberatoria: ma che vadano tutti a quel paese e riprendiamoci la nostra vita come se niente fosse.

 

A essere sinceri è proprio questo pensiero stupido, nel quale si condensa la nostra frustrazione e il nostro umanissimo desiderio di tornare alla vita di prima, a farla sempre più spesso da padrone anche nelle nostre conversazioni quotidiane. Evidentemente il semplice “dar fiato alla bocca” in qualche modo ci conforta, ci illude che basti un “vaffa” per risolvere i nostri problemi. Illusione peraltro infaustamente diffusa anche ad altre latitudini. Ma per fortuna subito dopo sentiamo che la realtà ritorna prepotentemente in primo piano, costringendoci a guardare questa pandemia con altri occhi, meno concentrati su noi stessi e magari più attenti anche alla primavera degli altri.

 

  

 

La pandemia ha ucciso in Italia quasi centomila persone, scompaginando la vita di tutti, non ci sono dubbi. Ma soprattutto ha colpito duro sulle persone più fragili e più sole, in particolare gli anziani e gli ammalati, molti dei quali sono morti e molti di coloro che sono sopravvissuti sono oggi semplicemente più impauriti di quanto lo fossero quando del coronavirus non si sapeva ancora nulla. Lo stesso possiamo dire di molti lavoratori, piccoli imprenditori, artigiani, commercianti che vedono aumentare la precarietà del loro lavoro e sono sempre più preoccupati di non riuscire a garantire a se stessi e alle proprie famiglie una vita decente. Poi ci sono i ragazzini, costretti a rimanere in casa, lontani dai coetanei, a volte con genitori che, non soltanto non possono permettersi di acquistare un computer, ma nemmeno sanno che cosa significhi trascorrere un po’ di tempo coi loro figli. E infine ci sono appunto le famiglie, molte delle quali già in difficoltà, sulle quali la pandemia scarica inesorabilmente anche questi problemi. Un florilegio di disgrazie che vanno ben oltre la miseria morale, schiudendoci una miseria diversa, incolpevole, ontologica, che non si chiama nemmeno miseria, bensì fragilità.

 

La pandemia non ha colpito tutti allo stesso modo; molti che erano fragili o privilegiati prima che essa arrivasse, oggi lo sono più ancora. Ma è anche vero che il virus ha come messo a nudo la fragilità di tutti, e questo, specialmente per i privilegiati che ne sono stati risparmiati perdendo al massimo qualche passeggiata primaverile, potrebbe essere un motivo in più per riflettere sulla vera pasta di cui siamo fatti, su quanto siano precari e quanto poco meritati i nostri privilegi e quanto invece sia comune la nostra fragile condizione umana. E siccome di questi tempi tutto può servire a farci un po’ di coraggio, non è detto che da questa catastrofe naturale non venga anche qualcosa di buono e d’imprevisto, una crisi che, proprio come insegna l’etimologia medica della parola, conduca tutti noi a un punto, l’acme avrebbe detto Ippocrate, a partire dal quale il nostro stato di salute può peggiorare fino a farci intravvedere la morte, ma anche volgere verso un miglioramento che liberi energie nuove.

 

La salute di cui sto parlando è ovviamente di tipo morale e culturale. Ma, in attesa che i vaccini arrivino a tutti, sono proprio le risorse morali e culturali l’arma più potente che abbiamo per difendere la nostra stessa salute fisica. Solidarietà, responsabilità, fiducia, fraternità, speranza sono tutte risorse culturali. Di passaggio, lo è anche la capacità di non prendersela troppo per il fatto che molto probabilmente il virus ci ruberà un’altra primavera. Conviene dunque coltivarle queste virtù, anche perché, come ha detto il presidente del consiglio Mario Draghi, ritornare alla vita di prima non sarà come riaccendere la luce.

 

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