La capitale tentacolare e pornografica di Aurelio Picca

Andrea Venanzoni

"Roma è una città di ombre rosa, angoli zuppi di piscio, un cielo che non è suo, e strade per mendicanti". Solo Aurelio Picca, che qui lo fa nel maestoso "Roma mia, non morirò più" (La Nave di Teseo), poteva con tanta lapidaria, poetica e pornografica nettezza descrivere quel senso straniato che ti prende occhi, viscere e narici mentre scaracolli magari per l’Esquilino e guardi il cielo blu ritagliato tra i tetti e hai il naso violato da zaffate irsute di una psichedelia da pissing urbano. Una Roma tentacolare e intima, metastatica e affastellata, ingombra e cisposa di memorie, ricordi, drammi, quotidianità slabbrate e dipanate per periferie, le case al Quadraro, le cupole dei poracci a Don Bosco e le incursioni a Ostia e lo Zagaia libertino a Capocotta, sul litorale bonificato e selvaggio, carnografico, al tempo stesso, e nel centro storico, dorato, tra poetesse come la Rosselli, "la femmina in volo", e la vita notturna e i personaggi di una città inafferrabile. Il bus notturno, una zattera della Medusa capitolina che arranca sull’asfalto, connettendo Ostiense e Ostia, lasciandosi alle spalle un lumpenproletariat senza cannibalismo ma dagli occhi iniettati di stanchezza atavica e di curry. Il ritratto psico-magnetico di Gigi Proietti, grandissimo nel suo non essere mai stato grande attore di cinema, ma personaggio astrale nel suo aderire alla romanità, cantore del barbarico e orgiastico banchetto chiamato Roma. E le migliori pagine che vi capiterà di trovare in circolazione su Pasolini, ormai divenuto pop-up kitsch per discorsi post-prandiali da terrazza con vista sul progressismo o sul conservatorismo e sulle rovine dei Fori, tra una tartina blesa e una serafica, iniziatica, arrotata conventicola che vuol lanciare una rivista tanto per aver qualcosa da fare e un biglietto da visita per altri salotti. Pasolini di Picca, una macchina. Piacerebbe a Ballard, quello di "Crash", certo, ma soprattutto quello della geomanzia rugginosa de "La mostra delle atrocità". Pasolini raggiante e ruggente per borgate proprio a bordo di una macchina nel senso di vettura, bolide, a cercare la sua bella e batailliana, disperatissima morte, come con quegli occhi solitari che già Testori, in "A rischio della vita", aveva pianto e notato ed effigiato. "Tante croci e sesso e poca luna". Motori e sciabordio di risacca e salsedine e volo basso di uccelli che se ne vanno a nidificare negli acquitrini purpurei del tramonto, all’Idroscalo. La Roma sparita, la Roma desolante, brughiera di antenne e di vicoli e di miseria e di desolazione, raggiera che non è mai arrivata, nemmeno in pellegrinaggio, nel cuore, nel centro di Roma. C’è una Roma, Picca lo scrive benissimo, che Roma non l’ha mai nemmeno vista, che non la conosce e che non la vedrà, una Roma accampata in recinti e steccati e divisa, DDR di muraglie e porfido e crepe nei muri, la lotta, il combattimento, Carl Schmitt a Corviale, la Corea del Nord che si eterna glaciale e silenziosa nelle ventuno torri di Tor Bella Monaca, una campagna morta ma che sopravvive, zombificazione urbanistica, ‘una sequenza di giovinezza, di architetture, atmosfere, persone e ambienti nuovi che ancora non si conoscono’. Se Albert Caraco fosse nato al Mandrione, dove le casette basse e tufacee di un villaggio anomico da set di Sergio Leone se ne stanno acquattate nel ventre borbottante dell’acquedotto antico-romano, si sarebbe commosso nel leggere di quel segmento di Roma Est, tra Pigneto e Centocelle, che pasolinianamente fa capolino nel capitolo "I cannibali". E Picca coglie un dato che a Roma è diventato saliente come l’acqua mormorante del Tevere: "le scritte sui muri sono i tatuaggi delle culture". Ormai le fotografano pure i turisti, una geologia dello spray, dei linguaggi tribali, politici, un affastellamento di epoche e rivendicazioni e scioglilingua. Un maroso inarrestabile che ha colonizzato centro e periferie, quartieri bene e quartieri poverissimi. Affratellamento desolante di sparizioni tra le ombre della vita notturna e delle scopate e del Verano, quelle memorie, scritte sulle mura come epigrafi funerarie. "Quello che siete fummo. Quello che siamo sarete". Immagini il muschio e i teschi intrecciati come maglia sminuzzata allo Scalo di San Lorenzo, mentre lo sguardo di Picca, da qualche terrazza turrita, irradia e osserva e scruta Roma Nord e poi Testaccio e il cinema e gli intellettuali e le puttane.
 

Di più su questi argomenti: