(Hervé Guibert)

Roma Capoccia

Le fotografie infernali di Hervé Guibert in mostra al Macro

Andrea Venanzoni

L'esposizione allestita da Anthony Huberman nasconde una lirica consonanza con la vita del fotografo e romanziere francese. Un'arte del nascondimento che oscura l’essere umano, ponendolo fuori dall’orizzonte della ripresa

Quando il letterato e fotografo francese Hervè Guibert decide di affrontare il demone della malattia, l’Aids nello specifico, lo fa prendendo il mostruoso toro per le corna, in una sorta di corrida trasfigurata attraverso l’ombra della parola. Si immerge in una coltre ispessita e brumosa di patologia, di sofferenza, di riflessioni carnicine e abbacinanti che si spalancano come fauce d’inferno, e ne partorisce “All’amico che non mi ha salvato la vita”. Romanzo terminale, davvero. Spazio immoto oltre cui non si stendono che ghiaccio e desolazione emotiva. Dalle incerte fortune editoriali in Italia, prima edito da Guanda, poi inabissatosi nel vortice della sparizione e infine ripreso da Gog. Una opera cupa. E lirica. Se ne percepisce il vuoto. L’origine di ogni assenza. Di silenzio e di solitudini claustrali tra dettagli anatomici, ricoveri ospedalieri, e la presenza, costante, di un dolore che non è più solo fisico ma che, al contrario, si nutre di desolazione e di chiusura in sé stessi. Evaporano le fisionomie amate. Si ritraggono davanti questo virus che fa emergere atavicamente la bestia che alberga nelle nostre carni.

 

Ora Guibert, con le sue foto, torna a Roma. Torna, già, perché in vita soggiornò a lungo nella Capitale, grande amante della nostra arte, di Fellini, Antonioni e Pasolini. Hervé Guibert: This and More, è una mostra fotografica a cura di Anthony Huberman ed organizzata in collaborazione con il Wattis Institute di San Francisco, che si sta tenendo al Macro di via Nizza, dal 9 marzo al 21 maggio. C’è una lirica consonanza tra queste foto e il percorso finale nell’esistenza, artistica e umana, di Guibert: l’apoteosi dell’inanimato, dell’oggetto che trasfigurato nella sua materialità si pone al centro delle attenzioni fino ad occupare l’intero spazio visivo. Arte del nascondimento, che oscura l’essere umano, ponendolo in margine fuori dall’orizzonte della ripresa. Aspetto che sottolinea l’evaporazione furtiva di amici, amanti, affezionati, atterriti tutti dall’incedere luttuoso di quella peste contemporanea che ha sfigurato il volto, ma non l’anima, dello scrittore. E se Foucault, che fu amico di Guibert, al medesimo male ha reagito con la rassegnazione e il voto del silenzio, lo scrittore impugna penna e fotocamera, producendo il senso ultimo della discesa nel gorgo della lenta, dolorosa distruzione. Concede voce e vita alla stessa morte, che avanza lenta, inesorabile, non pacifica nella sua esplosione suppurata di dolenti ferite e di cicatrici che Guibert evoca ed eterna riga dopo riga, scatto dopo scatto, fino alla vetta suprema del volume “Le regole della pietà” e del documentario, agghiacciante ma preziosissimo e che fece dell’Aids poesia, “La Pudeur ou l’Impudeur”.

 

L’opera di Guibert è esercizio di memoria. Dolenti fantasmi che popolano ambienti ripresi nella loro vasta nudità, cercando di estrapolarne la materica e ctonia forma umana, quella di un tempo, di uno sguardo o di una carezza. Guibert della sua convivenza, feroce, con la malattia ha fatto stile. Esercizio purificatore di catarsi tra volute sinuose di fiamme e fuochi, per darsi una regola di esistenza ordinaria laddove la società per lungo tempo ha condannato il malato di Aids alla scomparsa, e si pensi a quanto occorso in Italia con Tondelli e Bellezza, la cui fine ha per diversi anni fatto agitare un moto di riprovazione e di fastidio. Scomparsa. Dal sociale, dagli affetti, dal mondo culturale, un sipario, o meglio a dirsi un sudario, steso come velluto incancrenito sul volto, per negare l’esserci. La fotografia di Guibert è vorace e totalizzante. Inumana, e per questo troppo umana. Letti. Piante da ufficio. Tendaggi. Persino biglie. Una vita in apparenza ordinaria da cui è espunta qualunque presenza umana. Perché la presenza umana è ricordo, sofferenza, e se ne sta obliqua fuori dall’occhio vitreo della camera, in quel punto di intersezione tra ricordo e morte.

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