Jacques-Louis David, “La morte di Socrate”, 1787 (Wikipedia) 

Umanisti in affanno

Storici, filosofi e letterati non sanno più incidere sul dibattito

Giorgio Caravale

Non è solo colpa della politica che li ignora. Con il declino dei media tradizionali hanno smesso il ruolo di guida e si sono avvitati in una spirale tra comparsate nei talk e arroccamento nelle università. L’intellettuale è diventato organico soprattutto a se stesso

Se gli economisti, e in misura minore i giuristi, godono di una visibilità mediatica che li rende di per sé attraenti agli occhi della politica, lo stesso non si può dire per gli storici, i filosofi, i letterati, e più in generale per chi frequenta per mestiere le materie umanistiche. Nei decenni della Prima repubblica il dialogo tra politica e cultura umanistica, e più specificamente tra politica e cultura storica, è sempre stato molto intenso. Lo ha testimoniato recentemente Carlo Azeglio Ciampi ricordando la sua esperienza di giovane normalista e la sua formazione storico-filologica in una lettera rivolta tre mesi prima di morire al Direttore della Scuola Normale di Pisa. In quella lettera Ciampi ha rivendicato con orgoglio di aver sempre utilizzato nel corso della sua vita professionale “un metodo nella sostanza non diverso da quello applicato a un frammento nei memorabili seminari di Giorgio Pasquali”. Storia, autobiografia e politica si intersecarono in modo naturale, quasi fisiologico, nell’esperienza di molti uomini di cultura della sua generazione e di quelle di poco successive alla sua. 

  
La politica indirizzava alla storia, e la storia alimentava la passione politica. Riflettendo sulle motivazioni che lo avevano spinto a iscriversi al partito repubblicano nel secondo dopoguerra, lo storico Giuseppe Galasso, dopo aver ricordato che si trattò di una scelta ovvia per chi voleva “andare a sinistra […] escludendo il comunismo”, sottolineò che fu la “suggestione” per “le figure di Mazzini e Garibaldi” conosciute attraverso i libri di storia a influire nella sua scelta politica, ma notò anche che fu la sua “precoce intuizione democratica”, fondata sulla “distinzione fra liberalismo e democrazia” e ad un tempo sulla “consapevolezza della loro inseparabilità”, ad alimentare i suoi “studi, la conoscenza di Croce e del pensiero politico contemporaneo”. 

  
L’intreccio tra politica e cultura di cui la Prima repubblica fu espressione emerge molto nitidamente anche dall’esperienza professionale e intellettuale di Pietro Scoppola
, già funzionario del Senato della Repubblica, a lungo docente universitario di Storia contemporanea alla Sapienza di Roma, parlamentare della DC negli anni ottanta e infine tra i fondatori dell’Ulivo negli anni novanta. Gli anni trascorsi al Senato come funzionario parlamentare furono per lui l’occasione per approfondire interessi di ricerca già vivi ma soprattutto l’opportunità per “entrare in contatto con grandi figure della storia italiana”: “Vidi e sentii parlare dal banco del governo Alcide De Gasperi, Ezio Vanoni e tanti altri. […] Sedevano in Senato uomini come Antonio Banfi e Ugo della Seta: sentendoli parlare e frequentandoli si accentuava l’esigenza, che già avevo avvertito, di un confronto con la cultura laica”, ha scritto raccontando di sé.

  

Gli studi storici, a loro volta, costituirono il momento della sua iniziazione e del suo apprendistato alla politica: fu grazie a letture e ricerche di storia che Scoppola affinò la sua passione politica fino al punto di conoscere, e riconoscere, attraverso le pagine dei libri che andava leggendo (e scrivendo), i suoi maestri di politica: “In politica si possono avere maestri in due sensi: in quanto si è lavorato fianco a fianco con un politico di primo piano o in quanto si è studiato il pensiero e l’opera di un uomo politico nel quale ci si è riconosciuti. Non ho avuto maestri nel primo senso […] Nello studio, invece, ho scoperto grandi maestri di politica: soprattutto De Gasperi”. Il riferimento era naturalmente al cantiere di ricerca che portò alla stesura e alla pubblicazione di uno dei suoi più importanti lavori di storico, La proposta politica di De Gasperi (il Mulino, 1977), ma le sue parole erano soprattutto un inno al reciproco alimentarsi di politica e cultura: “Senza la passione politica cosa diventa la storia se non un’arida ricerca, senza anima e senza problemi? […] La storia ha bisogno della politica come la politica ha bisogno della storia”. Naturalmente, aggiungeva, “la passione politica è una ricchezza per la ricerca storica purché filtrata attraverso un metodo storico rigoroso”. […]

 
Negli ultimi decenni, invece, specie dopo la fine della cosiddetta Repubblica dei partiti, quell’intreccio tra politica e cultura si è dissolto lasciando il posto a una gelida diffidenza. Una politica schiacciata dal peso di fenomeni economici sempre più difficili da governare a livello nazionale, intrappolata da regole sovranazionali sempre più stringenti, libera dai lacci ma anche dallo slancio propulsivo delle Grandi ideologie, incapace perciò di immaginare il futuro, di offrire cioè una visione complessiva del mondo e di formulare proposte che muovano al di là della gestione del quotidiano, ha fatto ricorso in più di un’occasione alla competenza degli esperti ma non ha certo avvertito la necessità di mettersi in ascolto delle riflessioni formulate da storici, filosofi e letterati.

 

Diversamente da chi, come economisti e giuristi, dispone di competenze tecniche utili all’azione di governo, l’umanista non ha infatti altro da mettere a disposizione delle forze politiche se non, nel migliore e più raro dei casi, autonomia di giudizio, forza d’immaginazione, capacità di comprendere con sguardo lungo la complessità di fenomeni sociali e culturali: tutte caratteristiche delle quali la politica, incline a semplificare e banalizzare i temi del dibattito pubblico, ha sentito di poter fare a meno, quando non ha apertamente disprezzato.

  

Il distacco registrato negli ultimi decenni non è però solo responsabilità di una politica allergica alla riflessione intellettuale. Esso è anche frutto del progressivo declino della rilevanza dell’intellettuale nel dibattito pubblico. La perdita di prestigio dei tradizionali mezzi di comunicazione, come giornali e televisione, spesso costretti a inseguire i tempi rapidi e la scrittura sincopata dei social network, ha ridotto la capacità di influenza e il livello di riconoscimento sociale di una figura, quella dell’intellettuale di formazione umanistica, nata e cresciuta con i media tradizionali, con i giornali in particolare.

   

Giornali, editori e televisioni, indeboliti da un progressivo declino di lettori e ascoltatori, si sono mostrati inclini a raccogliere e rilanciare gli stimoli provenienti dal mondo economico e politico, piuttosto che ad assumere il ruolo di guida del dibattito culturale. Quando non sono state le iniziative legislative dei partiti, come nel caso delle questioni di genere e dei diritti civili, sono state le congiunture economiche o le emergenze sanitarie a dettarne l’agenda. Negli ultimi decenni, insomma, l’agenda culturale ha perso la sua autonomia. Alcuni intellettuali hanno provato a supplire al declino del loro prestigio sociale con un’illusoria e narcisistica “ansia firmaiola”, pronti a sottoscrivere decine e decine di appelli per altrettante Cause giuste: una smania di apparire cresciuta in modo inversamente proporzionale al peso da loro ricoperto nel dibattito pubblico contemporaneo.

   

Soprattutto, negli ultimi tre decenni l’intellettuale si è concentrato sulla costruzione della propria personale carriera, nel mondo della cultura come in quello della politica, prescindendo da qualsiasi appartenenza. Il processo di fidelizzazione politica, caratteristico della Prima repubblica, è evaporato. Una politica dominata da partiti volatili, liquidi, effimeri ha reso del resto difficile se non impossibile la costruzione di qualsiasi dialogo di lungo periodo. Nel migliore dei casi i rapporti fra intellettuali e politica sono durati il tempo della breve stagione del leader di turno.

  

Più in generale, si fa fatica a individuare centri di aggregazione ed elaborazione culturale: le traiettorie professionali degli intellettuali sono parabole individuali nel corso delle quali le fondazioni e i partiti figurano tutt’al più come treni di passaggio sui quali salire e scendere all’occasione. L’intellettuale si percepisce sempre più come un singolo individuo piuttosto che come parte di un gruppo, tantomeno di un progetto collettivo. E’ diventato organico soprattutto a sé stesso, come è stato scritto. Senza la coperta protettiva dei nobili ideali che, al tempo delle Grandi ideologie, ammantavano il suo agire, sono emersi sempre più scopertamente gli istinti meno nobili della sua azione: la sete di potere, il desiderio di un elevato status economico, la richiesta di riconoscimento sociale. I due fenomeni più significativi dell’ultimo trentennio, la “mediatizzazione” dell’intellettuale e il suo ripiegamento autoreferenziale all’interno delle mura universitarie, sono strettamente correlati tra loro.

  

A partire dagli anni Novanta, di fronte a una società sempre più dominata dall’intrattenimento di massa, gli uomini e le donne di cultura hanno iniziato a cedere alle lusinghe della televisione e dei nuovi media, provando ad adattarsi a un modello comunicativo che concepiva una pur breve apparizione televisiva come uno strumento molto più efficace, in termini di popolarità, di qualsiasi riflessione pubblicata sui giornali o su altri media tradizionali. Quel modello conteneva in sé i presupposti di un livellamento delle opinioni: il parere di un intellettuale ha finito per equivalere a quello di un attore o di un musicista di successo e, a parità di autorevolezza, i secondi sono risultati spesso più attraenti in termini di pubblico e di share. Allo stesso tempo la figura dell’intellettuale è stata oggettivizzata: la donna e l’uomo di cultura sono stati sempre più frequentemente cooptati dai media in ragione del loro status – la “quota intellettuali” prevista dai talk show – e non tanto per un reale interesse nei riguardi delle cose che avevano da dire. Schiacciato da modelli televisivi nei quali fa fatica a riconoscersi, costretto a inseguire le dinamiche dei nuovi social network, l’intellettuale si è così rifugiato nel chiuso delle aule universitarie, accentuando la sua emarginazione: la progressiva chiusura corporativa e la crescente autoreferenzialità dell’accademia italiana hanno sancito la sua definitiva uscita di scena dal dibattito politico contemporaneo. Già a partire dalla fine del secolo scorso i professori universitari, specie quelli di formazione umanistica, si sono gradualmente ripiegati entro i confini della loro scienza accademica, innescando una spirale in virtù della quale la crescente specializzazione ha alimentato l’irrilevanza pubblica del loro sapere. E’ un processo trasformativo che ha le sue radici negli anni Ottanta e Novanta del Novecento, quando il corpo docente ha reagito al fenomeno della massificazione universitaria postsessantottina accentuando i tratti della chiusura corporativa ed elitaria.

 

Come impauriti dalla sfida dei grandi numeri, i docenti universitari hanno rivolto sempre più frequentemente il loro sguardo all’interno dell’istituzione, contribuendo ad aumentare la competizione e la conflittualità intestine. La progressiva saturazione del mercato del lavoro accademico, poi, ha accentuato la tendenza a favorire studi sempre più specifici e specialistici: nel tentativo di distinguersi dai loro colleghi, gli studiosi (giovani e meno giovani) aspiranti a una carriera accademica hanno scelto temi di ricerca vieppiù circoscritti, rinunciando spesso a una prospettiva di lungo periodo e a una visione più ampia dei fenomeni studiati. La lentezza della carriera universitaria ha inoltre allungato i tempi della condizione di tutela e dipendenza vissuta dai giovani ricercatori rispetto alla corporazione universitaria, favorendo il proliferare di una produzione scientifica spesso autoreferenziale: libri o articoli rivolti a una ristretta cerchia di specialisti, gli stessi destinati a determinare il destino delle loro carriere accademiche, anziché a un pubblico potenzialmente più ampio. L’eccessiva frammentazione disciplinare, la crescente difficoltà di avanzamento di carriera, l’abitudine a circoscrivere sempre più l’oggetto della propria ricerca, la mancanza di uno sguardo lungo hanno trasformato il mondo accademico in un universo incapace di dialogare con la società esterna e dunque privo di impatto sull’opinione pubblica: nel campo della storia, per esempio, gli accademici italiani, tradizionalmente insofferenti nei confronti della divulgazione, non sono stati in grado di fare fronte ai profondi cambiamenti occorsi nell’ambito della comunicazione. Tranne poche lodevoli eccezioni, essi hanno lasciato ampi spazi all’affermazione di una modalità emotiva di fruizione della storia, incentrata più sul racconto impressionistico di eventi e personaggi che sulla ricostruzione attenta della complessità del passato, più sul tentativo di attualizzare la storia che sullo sforzo di comprenderla. Oggi la figura dell’intellettuale inizia a ricomparire sulla scena attraverso il web e le sue infinite risorse: si tratta però di un intellettuale privo dell’autorevolezza di cui godeva un tempo. Il che non è necessariamente un male, anzi. Ma certo pone sfide radicalmente nuove rispetto alle quali molti di loro non sembrano affatto pronti.

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