Piazza Navona nel marzo del 2020 (Ansa)

Roma Capoccia

Una città silente: la Roma del lockdown in mostra al Vittoriano

Andrea Venanzoni

Le immagini del fotografo Moreno Maggi, un’osservazione vuota di umanità per ripensare il tessuto urbanistico: non una eradicazione del fattore uomo, piuttosto una visione priva del caos che spesso inficia la vita in comunità

“Quello che per ogni altro sarebbe l’oceano della negazione, un orrore totale, io ci galleggio sopra in una barchetta di carta”. Nella e dalla consapevolezza morselliana, affrescata in Dissipatio H.G., della riduttività antropocentrica di qualunque escatologia, sembra emergere questa Roma silente, vuota, desolata nella sua austera e insolitamente catacombale solitudine, illustrata nella mostra “Roma bellezza silenziosa”. Inaugurata venerdì 20 gennaio, presso la sala Zanardelli del Vittoriano ove rimarrà fino al 28 febbraio, patrocinata da Roma Capitale, organizzata dall’Istituto Vive (Vittoriano e Palazzo Venezia) e da Webuild che ha peraltro curato il maestoso catalogo edito da Rizzoli, la mostra si basa sulle immagini realizzate dal fotografo Moreno Maggi: una esplorazione di Roma durante il lockdown, in quelle piazze e in quelle vie ora assolate ora oscure e vuote di carne umana, in una scomparsa propiziata dall’incedere del virus e dalle misure di contenimento contro la pandemia.

 

Una umanità respinta, perimetrata, recintata nella finitudine spaziale delle proprie case, a lasciar fluire fuori, all’aria aperta del giorno, sotto il candore bianchiccio di un sole pigro, o durante notti abissali, la carrellata in piano sequenza di Colosseo, Piazza Navona, monumenti, passeggiate, vicoli e viuzze intersecati in un arabesco claustrale. L’idea sottesa al progetto, e che emerge anche dai contributi presenti nel volume redatti da Massimo Recalcati, Pietro Salini, Claudio Strinati, è quella di produrre una osservazione vuota di umanità per ripensare organicamente il tessuto urbanistico e sociale del vivere: non una eradicazione del fattore uomo, quanto piuttosto una visione priva di quel caos vociante e vorticante che spesso produce dispercezioni nel senso stesso del vivere in comunità.

 

La mostra, interattiva e ad accesso libero, riprende, ricontestualizza ed esibisce la Roma della primavera del 2020, quando l’Italia intera e la sua Capitale sono sprofondate nell’incubo della reclusione anti-pandemica. 
La scomparsa davvero morselliana dell’umanità dalle strade, dai palazzi, dai bar, ha riverberato la eco di una sofferenza ancestrale delle poche figure antropomorfe disperse nelle immagini. La scarsa, scarna e disperata reliquia di una umanità alla deriva, circospetta, ebbra della sua stessa presenza in spazi ingombri di silenzio e vuoto. Foto, video da cui vediamo il planare maestoso dai tetti verso il fondo delle strade, proiezioni multimediali, elementi assemblati e curati da Roberto Koch e Alessandra Mauro, tra loro cospiranti rimandano ciò che è stato e che al tempo stesso diventa laboratorio per un ripensamento organico dello stare insieme, come patto sociale, nel tessuto urbano di una città elefantiaca e strutturalmente caotica.

 

In quel fluttuare sinuoso della visione, aperta a raggiera su una Roma che priva di umanità sembra modificare il concetto stesso di tempo, una Roma che non sembra più appartenere a una epoca precisamente identificabile, emerge la consapevolezza, notata da Andrej Tarkovskij come manifesto enigmatico del proprio cinema, di una arte che voracemente acquisisce come proprio elemento il tempo.
Non c’è più millimetrica scansione, sequenza di giorni o ore, il tempo semplicemente fluisce fino ad inondare ogni fotogramma, ogni spazio illuminato o grigio che sia, fino a divenire cosa sola con il marmo e con gli arazzi, con il verde e con le piazzette mute. E nonostante i colori vividi dei tramonti, il lucore dell’illuminazione pubblica che si espande sui lineamenti degli obelischi e delle fontane, la luce rosea del primo giorno sembrino evocare il passaggio da un tempo all’altro, la straniante sensazione determinata dalla mancanza di umanità nel corpo delle immagini è quella di una beata sospensione di qualunque calcolabilità e misurabilità del tempo stesso.

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