Un negozio bangla a Roma. Nella sola Tor Pignattara, sono 8 mila i bengalesi (foto LaPresse)

Il virus che corre sui voli charter. Viaggio tra i bangla di Roma

Gianluca De Rosa

A Torpignattara, la comunità bengalese chiede più tamponi. "Ma qui il Covid è vissuto come una vergogna". L'incontro con Batchu, il sindacalista dei bangla: "Di Maio fermi l'esodo da Dacca verso l'Italia"

La presenza massiccia della comunità bengalese a Roma ha già sufficientemente permeato l’immaginario capitolino. Sul tema lo scorso anno è stato fatto persino un film, “Bangla”, edificante storia d’amore tra un bengalese di seconda generazione e una giovane italiana con sfondo Torpignattara, la borgata sulla Casilina trasformata in pochi anni da quartiere popolare di Roma a sobborgo distaccato di Dacca. Ed è proprio qui, tra via Casilina e via dell’Acqua bullicante, che vive quasi un terzo degli oltre 30mila bengalesi di Roma. Uno spicchio di città su cui, non a caso, si sono concentrate le attenzioni (e le ansie) di media e istituzioni. Negli ultimi giorni la maggior parte dei nuovi casi di coronavirus registrati a Roma ha un legame con la capitale bengalese: ben 77 (dato aggiornato ad oggi) sono riconducibili a passeggeri atterrati a Fiumicino con voli provenienti da Dacca. Per questo il governatore Nicola Zingaretti ha firmato un’ordinanza per sottoporre obbligatoriamente a tampone tutti i passeggeri in arrivo dal Bangladesh. Questo l’esito del primo volo testato: su 280 passeggeri 36 sono risultati positivi (il 13 per cento).

 

Negli scorsi giorni, però, sono arrivati dal Bangladesh altri 8 voli. La Regione ha invitato tutti a sottoporsi al tampone, ma intanto spuntano i nuovi casi. Il che, evidentemente, costituisce un grosso problema. Non solo perché la comunità è numerosissima, ma anche perché spesso i bengalesi a Roma vivono in grande promiscuità (fino a 7 persone per appartamento) e lavorano in settori dove il rischio contagio è molto alto: ristorazione e commercio.

 

A Tor Pignattara di parlare della vicenda non c’è molta voglia. In via della Marrannella, dove ai macellai halal, alle frutterie e alle lavanderie bangla si alternano meccanici e vecchi vini e olii gestiti da anziani romani, per lo più si fa finta di niente. Fuori dai negozi, solo in italiano, alcuni cartelli ricordano le regole anticontagio, ma dentro – con le mascherine sulla faccia – si nega l’esistenza del problema. Tra chi risponde “Non sono nulla” e chi si nasconde dietro l’ignoranza dell’italiano. Tutti però offrono un consiglio: “Senti Batchu”. In una frutteria più ordinata e curata delle altre, Anwar, 50 anni, invece, parla senza freni: “Non è vero che nessuno rispetta la quarantena, io sono tornato il 12 giugno da Dacca e ho fatto 14 giorni in una stanza, separato anche da mia moglie e dai miei tre figli. Quello che fanno gli altri non mi interessa. Qui la gente si informa con Jonmovumi (un giornale scritto, edito e letto dai bengalesi di Torpignattara ndr), io vedo il Tg1 e leggo la Bbc”, dice fiero. “Se vuoi sapere che cosa combina la comunità chiedi a Batchu”. Ma chi è, Batchu? “Non mi far parlare… lui comunque sa tutte queste cose, sta a via Capua”, dice con un mix equilibratissimo di ammirazione e disprezzo.

 

Non resta che recarsi da Batchu. A via Capua tutti sanno di chi si parla e indicano l’ingresso di un seminterrato. “Associazione Dhuumcatu onlus, assistenza per cittadinanza, permesso di soggiorno, ricongiungimento, domanda di scia”, si legge su uno dei volantini appesi alla porta d’ingresso aperta”. Chiediamo di Batchu, ci fanno cenno di entrare. Il sindacalista dei bangla, occhiali sul naso e gilet verde, è seduto dall’altro lato di una scrivania con due pc e plichi ordinati in una stanza semplice: alle pareti solo una planimetria con l’intestazione “progetto cimitero islamico”. In quel sottoscala ai rassicuranti baci multiculturali di “Bangla” si sostituisce rapidamente un’atmosfera alla Martin Scorsese. Batchu proprio questa mattina ha partecipato insieme ad alcuni imam ad un incontro con la Regione Lazio e le Asl Roma 2 e 3 per capire come convincere la comunità a fare i tamponi e rispettare le regole. “Abbiamo ottenuto due presidi aggiuntivi nel fine settimana a piazza della Marrannella e a via degli Eucalipti, oltre a quello di largo Preneste. Si potrà andare anche senza la prescrizione medica. Poi nelle prossime settimane ci saranno presidi al VII municipio Tuscolano, al I, al IV e fino al XIII (dove vivono le altre comunità bengalesi della città). Inoltre, chi non saprà dove fare la quarantena sarà ospitato in albergo”.

 

Il risultato è che la gente sta cominciando ad andare a fare i tamponi. “Purtroppo – spiega – nella comunità questa cosa del coronavirus è vissuta come uno stigma sociale, tutti hanno paura a parlare e fino adesso la comunicazione è stata fatta male”. Ma perché tutte queste persone stanno tornando dal Bangaldesh in Italia? “Questi – dice Batchu – sono tutti voli charter (non di linea ma appositamente programmati ndr), sono persone che in qualche modo sono costrette a tornare perché gli sta scadendo il permesso di soggiorno e l’ambasciata italiana a Dacca ha spiegato che dopo non concederà più visti d’ingresso”. Insomma, ingressi obbligati per evitare di non poter tornare più in Italia regolarmente. “Così – racconta ancora Batchu – 200 persone sono rientrate e non sapevano dove andare a dormire, perché magari vivono in casa con altre 5 o 6 persone che giustamente non volevano prendersi la malattia . Con l’arrivo dell’ultimo volo di settimana scorsa abbiamo dovuto cercare soluzioni alternative: in qualche modo abbiamo sistemato tutti”.

 

Arriveranno altre persone? “Per adesso – spiega – sono arrivati 9 voli per 1.500 passeggeri, ma stimiamo che ci siano altre 4mila persone a cui scade a breve il permesso di soggiorno, ma frenare i voli non è la soluzione”. A questo punto Barchu si appella direttamente a Luigi Di Maio. “Servirebbe l’intervento del ministro degli Esteri per rassicurare le persone e spiegare che potranno comunque rientrare anche dopo con la procedura ordinaria, in questo modo si fermerebbero le partenze, purtroppo l’ambasciatore italiano a Dacca continua a dire il contrario”.

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