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Su Atac si vota per spegnere le fiamme

Massimo Solani

Ecco perché il referendum sui trasporti pubblici fa paura ai partiti, soprattutto al M5s che tradisce la democrazia diretta

Roma. Piccolo sondaggio privo di valore statistico: fra le chat delle mamme preoccupate per le scuole sedi di seggio chiuse lunedì, fra le persone al mercato o in attesa sulla banchina della metropolitana il referendum consultivo di domenica sulla messa a gara del servizio di trasporto pubblico locale è un ircocervo. Pochi sanno che si vota, quasi nessuno ha ben chiaro su cosa si voti e molti addirittura non sanno neanche dove dovranno votare. Paradosso di una consultazione che invece dovrebbe interessare da molto vicino milioni di cittadini che quotidianamente usano i mezzi pubblici e che, stando almeno ai dati dell’ultimo report sulla qualità della vita e dei servizi della Capitale, bocciano senza appello il trasporto pubblico romano.

 

Ma in una città appesa alla sentenza sul processo Marra in cui la sindaca Virginia Raggi è imputata per falso e quindi a rischio dimissioni in caso di condanna, il paradosso ormai è di casa e a nessuno pare meravigliare il fatto che l’amministrazione a cinque stelle abbia rinnegato anni di prosopopea sulla democrazia diretta e partecipata insabbiando di fatto un referendum consultivo per cui nell’agosto del 2017 i Radicali hanno raccolto 33 mila firme. Una strategia ben precisa culminata con la decisione di applicare alla consultazione, indetta e poi rimandata per evitare la concomitanza con il voto di giugno nei municipi III e VIII, addirittura le vecchie norme che prevedono un quorum del 33 per cento dei votanti per la sua validità nonostante il nuovo statuto del Comune voluto proprio dal Movimento abbia cancellato la soglia di partecipazione per i referendum consultivi. Questo significa che, affinché il voto sia valido, alle urne dovranno presentarsi circa settecentomila cittadini, il 50 per cento in più di quanti votarono Virginia Raggi al primo turno delle amministrative del 2016. Serve un miracolo, insomma.

  

C’è stata una strategia evidente mirata a far fallire la consultazione – attacca Alessandro Capriccioli, consigliere regionale del Lazio di +Europa e fra i promotori del referendum – il comune non ha voluto neanche approfittare dei soldi che siamo riusciti a mettere a disposizione in Regione per finanziare l’invio di lettere a casa dei cittadini in caso di consultazione referendaria. Semplicemente, non hanno fatto nulla per promuovere la consultazione. Anzi non hanno perso occasione, dalla sindaca in giù, per boicottarla”. “Ma questa – prosegue Capriccioli – è l’occasione per ridare al soggetto pubblico la dignità che oggi non ha più affidandogli esclusivamente il compito di organizzare, programmare e pianificare il servizio e liberandolo della gestione di una azienda come Atac che peraltro è tecnicamente fallita. Si è ingenerato un equivoco per cui a Roma Atac e servizio pubblico sono sinonimi: questo, però, non è un referendum sull’Atac ma su un servizio di trasporto pubblico che spetta ai cittadini e che oggi i cittadini in queste condizioni non hanno”.

 

Sullo scacchiere, però, i Radicali sono rimasti più o meno da soli a sostenere il referendum. Ci sarebbe anche il Partito democratico a dire il vero, persino Matteo Renzi si è espresso a favore nei giorni scorsi, ma nonostante la libertà “di coscienza” lasciata nella fase della raccolta firme al “Sì” pieno e convinto il Pd c’è arrivato (non senza defezioni) solo al fotofinish dopo una veloce consultazione con i propri iscritti. “Si sta mettendo il silenziatore al referendum perché si ha paura della risposta dei romani a un giudizio sull’amministrazione che ha fallito miseramente su questo come su molto altri temi”, ha attaccato il segretario cittadino Andrea Casu.

 

Dall’altra parte della barricata, sul fronte del “No”, ci sono tutti gli altri. Dal Movimento ai partiti di centrodestra, dai sindacati ai comitati dei lavoratori Atac che da una parte puntano a boicottare il referendum e dall’altra rispondono in 700 alla selezione per gli scrutatori. Del fronte fa parte anche la sinistra, con Stefano Fassina e l’ex assessore della giunta Raggi Paolo Berdini riuniti sotto l’insegna del comitato “Atac Bene Comune”. “L’esperienza – spiega il deputato di Leu – ci insegna che quando dei privati entrano in quelli che io chiamo ‘monopoli naturali’ i risultati sono pessimi”.

 

Molto attivo il comitato “Mejo de no” a cui hanno aderito anche tanti pd delusi dalla scelta del partito. “Il malfunzionamento del tpl romano non dipende soltanto dalla sua gestione – spiega il presidente Francesco Di Giovanni, ex assessore ai trasporti del I Municipio ai tempi della giunta Alemanno – e il problema è la perdurante assenza di investimenti e opere infrastrutturali. Non è il cambio di gestione fra pubblico e privato che può cambiare la qualità di un servizio strutturalmente incapace di funzionare in maniera adeguata. Serve un atto di responsabilità politica”. “Il referendum ha valore consultivo, ne terremo conto per migliorare – liquida la questione la sindaca Raggi – ma i romani si sono già espressi due anni fa”. La sua giunta nel frattempo, nonostante pendesse il referendum, nelle more del concordato ha concesso ad Atac la proroga del servizio con affidamento diretto fino al 2021 con una decisione ritenuta illegittima perfino dall’Anticorruzione. Quando si dice la democrazia diretta.

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