Francesco Piccolo

Annalena Benini

Arrivo da Caserta, forse per questo non sono ancora diventato come quasi tutti quelli che conosco: stanchi di se stessi e delle persone che frequentano. Sono immerso nel mondo del cinema e della letteratura, ma non provo alcuna stanchezza”. Il caffè di Francesco Piccolo è molto cattivo, tiepido e fatto con la macchinetta di George Clooney nello studio-monolocale al piano rialzato (sembra uno scannatoio ma è uno studio, qui con Nanni Moretti hanno scritto “Habemus Papam” e molte altre cose.

    "Arrivo da Caserta, forse per questo non sono ancora diventato come quasi tutti quelli che conosco: stanchi di se stessi e delle persone che frequentano. Sono immerso nel mondo del cinema e della letteratura, ma non provo alcuna stanchezza”. Il caffè di Francesco Piccolo è molto cattivo, tiepido e fatto con la macchinetta di George Clooney nello studio-monolocale al piano rialzato (sembra uno scannatoio ma è uno studio, qui con Nanni Moretti hanno scritto “Habemus Papam” e molte altre cose: pieno di fogli, bollette, libri, sigarette, confezioni di penne, colla Pritt, lampadine di ricambio e un vecchio portatile nero scambiato per non-apple: “Lei deve essere pazza come ha potuto pensare una cosa simile di me? Ho avuto sempre e solo Macintosh”), lui è un po' agitato: gli è appena arrivato per e-mail il nuovo libro impaginato, che uscirà in autunno per Einaudi (“Momenti di trascurabile felicità”), e c'è un problema con gli spazi bianchi che devono separare i brani fra loro.

    “Mi hanno detto che Giulio Einaudi trovava orribili gli asterischi, quindi niente asterischi, bisogna trovare una soluzione”. Da quando Concita De Gregorio, direttore dell'Unità, gli ha offerto una rubrica in cui scrivere quello che gli pare (“la prima volta mi ha chiesto un pezzo e non avevo capito bene, sono stato una settimana a soffrire, mi pareva brutto chiederle se dovevo continuare, magari mi rispondeva: ‘Ma che vuoi?', poi invece mi ha spiegato che ogni lunedì ci sono io e che lei era stata chiara dall'inizio”), Piccolo si è nuovamente immerso, come quando faceva lunghi reportage per “Diario” di Enrico Deaglio, nelle cose della politica, nell'osservazione critica del centrosinistra e in pensieri spesso non in linea con il suo giornale. Lunedì scorso sull'Unità, fra gli appelli per la libertà di stampa, il furore di Gianrico Carofiglio, il discorso di Pericle agli Ateniesi scelto da Rosetta Loy per invitare alla resistenza, c'era il commento di Piccolo a pagina tre: “(…) Vorrei vivere in un paese in cui le restrizioni sulla libertà di stampa scomparissero dal decreto, e in seguito, alcuni direttori di giornali mettessero in atto per davvero l'autoregolamentazione virtuosa che adesso invocano, dopo averla spesso calpestata con disinvoltura, e i cittadini (come me) non avessero alcuna voglia di leggere fatti privati di nessun interesse pubblico”.

    La differenza fra Piccolo e il suo mondo,
    indignato e annoiato insieme, superiore agli eventi e alle persone, è che lui si mette dall'altra parte, con gli snobbati: quelli che leggono avidamente le intercettazioni quando riguardano vicende erotiche, quelli che hanno nell'iPhone l'applicazione con un accendino Zippo che fa la fiamma da agitare ai concerti, quelli che guardano Sanremo, quelli che capitano per la prima volta in business class e nella sala vip della Malpensa si appoggiano sulle gambe una quantità impressionante di riviste e quotidiani, “perché ho paura di perdermene qualcuno, e li sfoglio con voracità lasciando segni indelebili di oli industriali”, gli oli delle patatine e delle noccioline di cui si è riempito le mani, incredulo che sia tutto gratuito (da “Allegro Occidentale”, Feltrinelli, è stato finalista al Premio Strega). Anche quelli che vedono in televisione la pasticca bicolore per la lavastoviglie che promette pulizia e splendore senza precedenti e si arrendono subito alla svolta epocale nel progresso delle lavastoviglie.

    Gli snob stanno invece alcuni gradini più in alto,
    sempre dalla parte giusta, ma sentono di non avere nulla in comune nemmeno con il proprio popolo: “Vogliono i loro voti, ma con distacco, la sinistra italiana vuole che il paese che disprezza si affidi alle sue cure, ma è davvero improbabile che accada”. Sentono di non essere responsabili di nulla, “io so benissimo, invece, che vengo dal mondo di quelli che guardano i cinepanettoni”. Piccolo ha deciso che non gli importa granché se lo accusano di criticare i tic del centrosinistra “perché manovrato da qualcuno: hanno detto che sopra di me c'è Bersani” o “per far piacere a quelli di destra”. “Penso che ci siano due modi di scrivere un commento, il primo è: faccio quello che voglio, il secondo è: devo capire cosa è giusto fare. Mi sforzo di seguire sempre il primo modo, fregandomene delle conseguenze e delle critiche: è più importante dire la verità che dire la cosa giusta, Concita mi ha dato uno spazio di libertà assoluta e sarebbe uno spreco non usarlo per dire quel che penso da anni. Io poi sono ossessivo e insonne ma non complottista, lascio agli altri la fatica dei pensieri contorti”. Dice che non sente di avere il compito di dimostrare a ogni riga di essere di sinistra.

    Libero da questo cliché, Piccolo ha scritto parecchie cose sorprendenti negli ultimi mesi: che non firmerà mai più un appello per giuste cause, che non vuole, in nome dell'antiberlusconismo, stare insieme a forcaioli, violenti reazionari, comici diventati messia, tizi che fanno satira di serie C, gente che sarà felice soltanto quando vedrà tutti in galera, altri che mandano mail con barzellette su Berlusconi e sull'altezza di Brunetta. “Non voglio essere peggiore di quello che sono”. Ha scritto, mentre più o meno tutti usavano il sarcasmo più becero esistente in natura, che non gli importa nulla se Mara Carfagna prima di diventare ministro ha fatto un calendario o altre cose (“è sufficiente pubblicare le foto di lei soubrette per essere stupidamente offensivi, basta un inciso insinuante per diventare maschilisti, razzisti, reazionari, e se lo fa un uomo è grave, se lo fa una donna è gravissimo”, dice anche adesso), ha scritto che spera che Saviano resti uno scrittore e non scenda in politica, che il “Quaderno” di José Saramago è molto brutto e il fatto che sia antiberlusconiano non lo migliora affatto, ha ironizzato sul programma della speranza, a sinistra: sperare che prima o poi accadano le cose, attitudine molto meno stancante della ricostruzione di una credibilità, ha criticato il tifo dei suoi per Gianfranco Fini (“chiunque può diventare il nostro eroe, perfino Italo Bocchino”). E' stato, è spesso anche molto cattivo (“un presidente del Consiglio così non se lo merita nessuno, soprattutto coloro che ci credono”), dice invece che sui giornali non gli piacciono i cattivi e nemmeno le zitelle acide (a lui piace soprattutto Adriano Sofri, ma anche Michele Serra, nonostante la teorizzazione della diversità antropologica, Barbara Spinelli, Eugenio Scalfari, “perché è frontale”, e naturalmente Concita De Gregorio, “è simpatica, brava e ambiziosa, mi piacciono le persone ambiziose”), gli piaceva moltissimo Edmondo Berselli, detesta l'ossessione giudiziaria portata da Marco Travaglio nella sinistra e i nomignoli come “Al Tappone”, che sul Fatto Quotidiano hanno grande successo, e l'avevano prima anche sull'Unità, ha provato fastidio e compassione per i maltrattati in alcune puntate di “Annozero” (“Se Santoro fa una puntata violenta e poco condivisibile sul terremoto, se Vauro disegna vignette volgari, non importa, poiché sono sotto attacco del nemico, bisogna per forza stare dalla parte loro. E quello che ti piace per davvero, non conta più”).

    “Non funziona così, non basta avere davanti un nemico per poter dire qualunque cosa e non si può semplificare così la politica”. Il secondo caffè è forse più cattivo e freddo del primo, ma Francesco Piccolo racconta di quando vent'anni fa se ne andò da Caserta e arrivò a Roma a casa di una cugina soprano, “non perché Caserta fosse degradata e io un disperato intellettuale gramsciano, ma perché mi annoiavo: da provinciale mondano, facevo una vita da bar e da discoteche e volevo semplicemente trovare il modo di scrivere: a casa ero Gramsci, fuori ero Miguel Bosé”. E' ancora abbastanza Miguel Bosé, per fortuna, anche adesso che tutti i registi italiani vogliono scrivere i film con lui (Francesco Piccolo è altamente corresponsabile, ma senza lamenti, dello stato del cinema italiano), e il prossimo sarà Gabriele Muccino (“una commedia di genere questa volta: una rapina, una specie de ‘I soliti ignoti'”), ora che Einaudi aspetta altri libri e a lui manca soltanto di inventarsi una canzonetta per Sanremo. “Ascolto qualunque cosa, Eros Ramazzotti, Renato Zero, Tiziano Ferro, Claudio Baglioni, tutto, vorrei scrivere di quelli che si amano e poi non si amano più”. Sa che il suo romanzo “La separazione del maschio” (racconta i molti tradimenti amorosi e il sentimentalismo fallito di un quarantenne come lui, con una chiara e letteraria intenzione autobiografica, ma purtroppo non gli si può chiedere: “Scusi ma è lei, con la faccia da camorrista, come si è detto da sé, che ha fatto tutte quelle corna, anche con la baby sitter, anche con la migliore amica della moglie, e che usava l'aspirapolvere per cancellare le tracce in camera da letto?”) ha avuto un impatto violento: molte ragazze l'hanno odiato, per “quell'immaginario erotico del maschio meridionale, il punto più basso della scala evolutiva della contemporaneità”, Philip Roth sarebbe probabilmente fiero di lui per la teoria della “scopata dilazionatoria” (“con tutte, scopavo per non scopare più per un periodo. La cosa diventava alquanto ossessiva, perché c'erano momenti in cui arrivavo all'ultima scopata dilazionatoria ed ero pronto per sentirmi libero da preoccupazioni per un po', quando una telefonata mi riportava alla realtà: la prima scopata dilazionatoria aveva ormai esaurito il suo tempo – lo sai quanto tempo è passato? Mi meravigliavo: non credevo così tanto. Mi ritrovavo allora davanti a un'altra scopata dilazionatoria. E il giro ricominciava”), la maggior parte dei maschi ha esultato già all'inizio, quando lui capisce che la moglie se n'è andata e per prima cosa non prova a telefonarle, ma chiama Andrea per avvertirlo di trovare un sostituto per il calcetto, molte altre ragazze hanno apprezzato la sincerità di uno che le ama davvero tutte, alla fine, e ama la moglie e la figlia, altre hanno pensato che in fondo non occorre essere uomini per vivere così, basta organizzarsi e usare l'aspirapolvere (alcune, guidate da uno slancio pre-Michela Marzano e Nadia Urbinati, hanno trovato che la copertina, un nudo femminile senza testa, offenda in modo intollerabile il corpo delle donne). Gli uomini in generale hanno finto di apprezzare, ridacchiando, la dedizione di questa specie di maniaco sessuale alle femmine, pensando che comunque una faticaccia del genere non vale l'inarrivabile grandiosità con poltrona dell'intera programmazione di sky sport.

    Per molti Francesco Piccolo è diventato uno scrittore erotico, ma lui aveva cominciato scrivendo articoli sul basket e cose per la minimum fax appena nata. Niente aspirazioni frustrate, niente tentativi a vuoto, nessun rancoroso girovagare in cerca di un editore: Piccolo diede i suoi racconti a Domenico Starnone, a Starnone piacquero e glieli fece pubblicare. Subito lo chiamarono per scrivere film, reportage, altri libri: “Roma per me è ancora un posto magico, il posto dove succedono le cose”. Da allora il suo mondo è questo, ma con lo sguardo di Miguel Bosé a Caserta. Antonio Pascale, Niccolò Ammanniti, Silvio Soldini, Paolo Virzì, Nanni Moretti sono i suoi amici, senz'altro giocano anche a calcetto insieme, è impossibile sapere se un film gli è piaciuto oppure no perché l'ha sempre visto seduto accanto agli autori, “non riesco a essere obiettivo”, non si capisce se un libro è bello o fa davvero schifo perché magari l'ha scritto uno con cui va in vacanza o a cui presta lo scannatoio per dormire, se è imbarazzato dice: “Non l'ho ancora letto”. Dev'essere per questo, sebbene dica di non avere alcuna valvola di sfogo, perché scrivere, leggere, vedere film sono tutto quello che fa e non ha bisogno di fare immersioni o lanciarsi col paracadute, che si sfoga nella politica. Lì non soffre, nemmeno quando gli dicono che così si fa strumentalizzare dai cattivi. “Soffro tantissimo invece quando esce un film a cui ho lavorato, sono a casa sul divano e intanto mi immagino tutta la gente al cinema che non si diverte o che pensa: che brutto film, e mi sento in colpa”.

    Quando esce un suo libro si tormenta meno,
    “perché l'accoglienza scivola più morbida, ci vuole tempo, lo compri o non lo compri, lo leggi a casa tua, magari pensi che sono un cretino ma lo trovo meno doloroso perché critichi soltanto me”. In quello che fa e che osserva c'è questo continuo senso di empatia, l'idea di essere tutti insieme dentro il mondo (“anche dentro il mondo di Berlusconi”), alla pari con gli avversari politici: i centri commerciali, i villaggi vacanze, la televisione trash, l'Ikea, Domenica In, la morbosità delle intercettazioni, Beautiful, il sesso dentro le cose politiche. “Sono arrivato al liceo nel 1978, quando era appena finito tutto, un minuto dopo che avevano chiuso le porte, per questo ho sempre vissuto la politica con un'aria postuma: ho letto tutto il leggibile su quello che non ho visto, ma resto un provinciale meridionale degli anni Ottanta”. Da provinciale meridionale non disgustato del mondo, in grado di entusiasmarsi per “Tropico del cancro” di Henry Miller, per Francis Scott Fitzgerald, per i “Sillabari” di Goffredo Parise, affezionato a Roberto Saviano (“sempre perché sono di Caserta e lui ha raccontato storie che conosco, ha scritto una cosa potente che l'ha sovrastato e ha creato delle conseguenze, quindi adesso è difficile e impreciso volerlo giudicare solo come uno scrittore”), gli viene naturale smascherare lo snobismo e il perbenismo, l'attitudine a provare orrore e senso di superiore distanza per i comportamenti altrui della sinistra chic. “L'ho anche scritto sull'Unità: non mi posso dimenticare che il settimanale di resistenza umana che ho tanto amato, ‘Cuore', nell'ultima pagina faceva una classifica delle cento cose per cui vale la pena vivere. Questi italiani evolutissimi di sinistra che facevano resistenza umana, votavano ogni settimana, al primo posto, la fica. Siamo diversi nel voto politico, ma non nelle ossessioni: il maschilismo atavico e spaventoso che si imputa a quelli di destra non è diverso dal maschilismo atavico e spaventoso di quelli di sinistra, non c'è bisogno di tirare di nuovo in ballo Mara Carfagna per capirlo, però sarebbe il momento di accettarlo”. I “Momenti di trascurabile felicità” raccontano attimi di piacere assoluto e poco gramsciano: quando la baby sitter dice che la verrà a prendere il suo fidanzato e quindi non bisogna riaccompagnarla a casa, quando c'è un film che si vuole vedere e ogni giorno si rimanda il cinema, finché il film esce dalle sale e si prova un ozioso sollievo, quando la domenica mattina presto Francesco Piccolo cammina per Roma per vedere le ragazze che escono dai portoni dopo un sabato quasi insonne, ancora dentro gli abiti da sera, con il trucco disfatto, quando al Festival c'è una canzone strappalacrime, quando gli hanno spiegato che la convocazione della riunione di condominio, alle sei del mattino, era solo formale e non ci doveva andare. Quando si ha ragione e si può dire, di tutto: “Te l'avevo detto”.

    • Annalena Benini
    • Annalena Benini, nata a Ferrara nel 1975, vive a Roma. Giornalista e scrittrice, è al Foglio dal 2001 e scrive di cultura, persone, storie. Dirige Review, la rivista mensile del Foglio. La rubrica di libri Lettere rubate esce ogni sabato, l’inserto Il Figlio esce ogni venerdì ed è anche un podcast. Ha scritto e condotto il programma tivù “Romanzo italiano” per Rai3. Il suo ultimo libro è “I racconti delle donne”. E’ sposata e ha due figli.