Il vero fenomeno

Claudio Cerasa

Era una maglietta con il numero 4 bianco della Umbro incollato dietro la schiena, con nove bande verticali nere, nove bande verticali azzurre, una stella gialla cucita sopra una lunga P dentro la cui pancia erano contenute le lettere “irelli”, con un corsivo che appena s'intravedeva, nascosto sotto l'azzurro della maglietta, sotto il nero della casacca.

    Era una maglietta con il numero 4 bianco della Umbro incollato dietro la schiena, con nove bande verticali nere, nove bande verticali azzurre, una stella gialla cucita sopra una lunga P dentro la cui pancia erano contenute le lettere “irelli”, con un corsivo che appena s'intravedeva, nascosto sotto l'azzurro della maglietta, sotto il nero della casacca. Nero, azzurro; nero, azzurro. Era, o meglio, è un maglietta non molto grande, una taglia L, con la manica destra leggermente scucita sul bordo, con sette lettere sopra il numero 4 e con tre parole ricamate come fossero un sorriso, lì al centro del petto, sopra lo sterno, sotto un logo dentro il quale sono annodate, una dentro l'altra, una C, una F, una I, e una M che messe in ordine, una dopo l'altra, non sono altro che le tre lettere in corsivo nascoste tra le bande nere e azzurre; F come federazione, C come calcistica, I come Internazione e poi M, come Milano. In basso, con il sorriso: Finale Coppa Uefa 96-97. Non è una maglietta come tutte le altre, è una maglietta di Zanetti, una maglietta storica, una partita terribile. L'allenatore era Roy Hodgson, la squadra era l'Inter, la serata era davvero molto bella. Era un giovedì, era il 21 maggio del 1997. Minuto numero 119. Inter-Schalke 04. Pagliuca, Bergomi, Fresi, Paganin, Pistone, Djorkaeff, Sforza, Ince, Zanetti, Ganz, Zamorano. Tra un minuto cominciano i rigori, è la seconda Inter di Massimo Moratti, il capitano si chiamava Giuseppe Bergomi. Javier Zanetti, per tutti Saverio, per tutti “Pupi”, per tutti el “Tractor”, per tutti, ora, “il Capitano”, aveva 24 anni, era alla seconda stagione all'Inter ed era proprio come ora, con i capelli squadrati che ballano alla sinistra e alla destra di un'indistruttibile riga, con gli occhi duri, gli zigomi alti, il mento morbido, il naso un po' lungo e due quadricipiti enormi. Zanetti era appena arrivato, ma era già un fenomeno; giocava a destra, come terzino, ma per lui andava bene ovunque. Destra, sinistra. Difesa, centrocampo magari anche in attacco. Roy Hodgson, un allenatore particolarmente apprezzato dalla famiglia Moratti, quella maledetta sera decise di sostituire Zanetti con Nicola Berti. Il minuto è il centodiciannovesimo, Zanetti si volta verso la panchina, fa uno scatto, si sfila la maglietta, avvicina le mani quasi per accennare a un applauso, lancia la maglietta verso l'allenatore e poi scompare, va via (anche se negli spogliatoi non ci entrerà mai, in realtà). Zanetti, come dire, era piuttosto incazzato. La maglietta rimane lì, di fronte ai mocassini neri di uno dei quattordici allenatori dell'era Moratti (non è da escludere che Roy Hodgson sia ancora a libro paga della famiglia, pur allenando la Finlandia), ed è, quella, una maglietta storica; una maglietta custodita in un segretissimo armadio a muro (non milanese), piegata dentro una scatola di scarpe e avvolta all'interno di un panno verde; ed è, quella maglietta, l'unica testimonianza ufficiale di un qualsiasi gesto di “tensione” del giocatore più forte della squadra campione d'Italia; l'unico in 543 partite ufficiali giocate, in dodici anni di campionati, di trionfali Coppe Uefa, di tragiche Coppe Campioni e di splendide coppe Italia durante le quali Javier Zanetti ha visto cose che voi umani non potete neppure immaginare. Ha visto passare accanto a sé, Zanetti, importanti e indimenticabili giocatori che hanno provato a risolvere la crisi, anche qui, di leader a sinistra, dell'ex Ambrosiana; ha visto passare, accanto a sé, duttili e indubbiamente interessanti giocatori come Gianluca Festa, Massimo Paganin, Salvatore Fresi, Alessandro Pedroni, Jocelyn Angloma, Alessandro Pistone, Matteo Ferrari, Fabio Galante, Francesco Colonnese – detto Ciccio –, Luca Mezzano, Luigi Sartor, Martin Rivas, Massimo Tarantino, Taribo West, Zoumana Camara, Mikael Silvestre, Cyril Domoraud, Michele Serena, Vratislav Gresko, Fabio Macellari, Pasquale Padalino, Lalo Sorondo (è interessante notare come di alcuni giocatori, oltre alla difficoltà nel credere siano davvero esistiti, si inizino a perdere le poche informazioni somatiche rimaste in memoria) e ancora, Daniele Adani, Carlos Gamarra, Giovanni Pasquale, Jéréme Brechet, Thomas Helveg, Pierre Wome, Nelson Vivas, senza dimenticare l'ottimo Roberto Carlos, intelligentemente, però, cacciato da Roy Hodgson (“Era indisciplinato tatticamente”) il quale avrà molto probabilmente ceduto il più volte campione del mondo per assicurarsi una prelazione sul uruguagio Fabian Carini, portiere sudamericano come Javier Zanetti e ricordato da capitan Zanetti, più che altro, per essere l'unico giocatore della storia del calcio mondiale a essere stato scambiato alla pari per un quasi pallone d'oro come Fabio Cannavaro (Carini ora è stato ceduto per una cifra molto prossima agli euro zero).

    Perché gli altri potranno continuare a inventarsi doppi passi, biciclette, capriole e colpi dello scorpione, potranno palleggiare con più pelote su un piede solo e potranno anche vincere palloni d'oro, Coppe del mondo, coppe Campioni, ma negli ultimi tredici anni, in Italia, non è esistito nessun giocatore come Zanetti. E non si tratta dell'incredibile balla del “non ci sono più le bandiere di una volta”, come in molti provano a convincerci dal giorno in cui sono arrivati un po' più di stranieri in Italia. Balle. Cos'è Del Piero? Cos'è Francesco Totti? Cos'è Paolo Maldini? Solo che per capitan Zanetti è un po' diverso. Per un terzino destro è sempre un po' più difficile diventare, da fenomeni, “Il capitano”; è un po' più difficile diventare un fenomeno di capitano e riuscire a essere insieme, contemporaneamente, un po' come il grande Giacinto Facchetti, un po' come Sandro Mazzola (superato da Zanetti come presenze ufficiali), un po' come Roberto Carlos, un po' come Giuseppe Bergomi; specie quando quel signore che un tempo aveva quei bellissimi baffi neri neri da Mundial aveva giocato prima di te, proprio su quei campi, su quelle fasce e con quella fascia; specie dopo aver passato dodici anni (dodici, sono davvero tanti) attraversando ogni zona del campo, vincendo una coppa Uefa, con Gigi Simoni, quasi da terzino sinistro, giocando da fantasista (è successo in una memorabile partita contro l'Udinese in cui Zanetti era evidentemente molto più forte di Zinedine Zidane) con l'incompresa Inter di Hector Raul Cuper (non è da escludere che Cuper sia ancora a libro paga della famiglia Moratti, pur allenando il Betis); un allenatore, Hector Raul, che per quasi due anni, se Zanetti non giocava a centrocampo, al minuto numero 75, lui lo prendeva e lo sostituiva con l'enigmatico Nelson Vivas. Andava sempre così, e mai una protesta. Zanetti capiva; e poi usciva. Perché la figura di capitan Zanetti è un ottimo esempio per provare a spiegare il modo in cui un po' tutti gli allenatori interisti degli ultimi anni hanno provato a risolvere la crisi di leadership sulla sinistra, che dopo Andy Brehme e dopo Roberto Carlos ha trovato riscontri poco positivi nelle figure di Macellari, Pistone etc. E bisogna anche capirli, gli allenatori, dato che, da quando c'è Alvaro Recoba all'Inter, qualsiasi giocatore dotato di “piede sinistro” deve, probabilmente per contratto, utilizzare quel piedino mancino in maniera tale da non turbar troppo la sensibilità artistica del Chino (l'ultimo mancino puro visto pascolare sulla fascia sinistra dell'Inter è stato il grintoso Grigoris Georgatos ed è da notare come l'Inter, lo scorso anno, sia riuscita a far assomigliare a Darko Pancev anche il terzino sinistro più forte dei Mondiali: Fabio Grosso). Solo che Zanetti, che anche con Mancini – per colpa di un brasiliano di nome Maicon – ha dovuto adattarsi un po' a destra, un po' a sinistra, un po' in difesa, un po' a centrocampo, ha sopportato tutto, si è adeguato a ogni situazione e in dodici anni di Inter (questo è il tredicesimo), pur apprezzando i pittoreschi tentativi dei giornali di colore rosa di voler trovare, ogni anno, un nuovo “vero leader” dell'Inter, lui in tutto questo tempo è stato l'unico esempio di “acquisto di coppia” riuscito dalle parti di Appiano Gentile, laddove si allena l'Inter (il gioco dei giornali “rosa” è questo. Si prende un titolo come quello apparso la scorsa settimana sulla Gazzetta dello Sport: “Nel laboratori di Mancini Ibra si è già preso l'Inter”, e si lavora su questo titolo, ogni anno, cambiando gli addendi. Al posto di Mancini ci vanno i vari Lippi, Lucescu, Verdelli, Bianchi e al posto di Ibra ci vanno i vari Adriano, Branca, Zamorano, Centofanti, Macellari, Pancev etc; con il risultato che l'Inter tende a credere che, più che trovar un dannato terzino sinistro, il problema sia cercare ogni anno un leader in più). Zanetti è, come si diceva, l'unico esempio degli ormai mitologici “double” nerazzurri: la nota formula di “due giocatori al costo di tre”, ma a prezzo speciale, che hanno caratterizzato i dodici anni di Massimo Moratti. Si ricordano casi come Recoba-Pacheco, Ronaldo- Gilberto, Farinos-Peralta, Vampeta-Rivas e poi, il primo di tutti, Zanetti-Rambert. L'acquisto vero fatto dalla dirigenza nerazzurra, che però non conferma, era Sebastian Rambert: un attaccante di sicuro valore che dopo le zero presenze in campionato (a ottobre del 1995 venne subito ceduto) è stato avvistato per l'ultima volta nel 2003 in una squadra argentina di nome “Arsenal de Sarandì”.

    Solo che Zanetti è rimasto all'Inter. Solo che Zanetti è rimasto all'Inter, perché lui è un giocatore un po' particolare, uno che difficilmente ti fa il doppio passo e che da piccolo aveva anche qualche difficoltà a infilare cento palleggi uno appresso all'altro, ma Zanetti, oltre a essere il capitano, è ormai l'ultimo vero esempio dell'ormai smarrito “orgoglio del terzino destro”. Non è un fenomeno come Zambrotta, non è un pendolino come Cafù, non è un pasticcione come Zebina, Zanetti è invece l'ultimo rappresentante di una categoria un po' trascurata che da anni, partendo dai campetti meno famosi, cerca di far comprendere a chi parla “di solitudine” dell'ultraprotetta ala destra, che la verità, drammatica, è un'altra: la verità è che ormai nessuno si occupa più della tutela del terzinaccio destro; di quel ragazzo con i piedi un po' fucilati che arriva a giocare un po' tardi a calcio, che palleggia solo solo in un angolo del campo di allenamento e che impara a fare tre palleggi, uno appresso all'altro, quando gli altri ormai già palleggiano con le noci di cocco, che si nasconde lì, accanto alla riga del fallo laterale per mimetizzarsi tra le borracce appoggiate di fronte alla panchina; perché il terzino destro, inutile prendersi in giro, non è un fenomeno, non lo è quasi mai, e quando lo diventa è incredibile, è commovente, è l'orgoglio di un'intera nazione di “fluidificanti”. Perché lui è quello che gli allenatori amano chiamare “mezzo giocatore”, uno di cui, prima di una partita, solitamente si intrecciano le mani sperando che non faccia troppi danni, non che faccia tanti numeri. Lui è uno che non sogna di diventare come Ronaldo o come Weah, ma sogna di essere un incredibile trattorino come capitan Zanetti. Sogna di potersi circondare di così tanta leadership da non aver bisogno di indossare, in alcuni casi, neppure la fascia da capitano (quando Ronaldo diventò capitano dell'Inter, la fascia gliela diede direttamente capitan Zanetti anche se poi, poco tempo dopo, quel giocatore – che all'epoca aveva i capelli corti corti – dopo aver vinto un pallone d'Oro e una Coppa del mondo, decise di trasferirsi a Madrid per poi tornare a Milano e mettersi le mani dietro alle orecchie, e sentir l'effetto che fa segnare un gol al derby). Zanetti, negli anni così così di Massimo Moratti, è però stato fondamentale anche per un altro motivo; era lui quello che ci credeva sempre, era lui quello che ci credeva, non per contratto (al Real Madrid, un paio di anni fa, avrebbe guadagnato parecchio di più), era lui che quando entrava in porta con il pallone, come farà certamente anche quest'anno, prendeva la punta della maglietta e la baciava come fosse la moglie Paula, e correva sotto la curva nerazzurra. “Un capitano. C'è solo un capitano”. E per anni, forse solo chi è interista può capire, era lui l'unica ragione per cui ogni tanto tu guardavi l'Inter, la vedevi pareggiare contro la Reggina, la vedevi perder contro lo Schalke, la vedevi perdere, pareggiando, contro il Milan e tu credevi che, in fondo in fondo, non era tutto finito; bastava guardare negli occhi Zanetti per capire che se lui ci credeva, se lui non la passava mai, se lui entrava dentro la porta con il pallone (il problema di Zanetti non è che la passa poco, è che la passa troppo), allora, in fondo, era meraviglioso crederci ancora. Era meraviglioso sentirsi ancora interisti, se c'era lui. Anche il 5 maggio del 2002, quando l'Inter perse lo scudetto all'Olimpico. Anche il 21 maggio del 1997, quando l'Inter perse la Coppa Uefa contro lo Schalke 04. Perché sapevi che lui sarebbe stato l'unico giocatore in grado di prendere il posto di Giuseppe Bergomi (chi almeno una volta nella vita è stato in grado di toccare lo “Zio”, racconta “l'incontro” con una misticità paragonabile solo all'arrivo di Dante in Paradiso, nel Canto XXXIII); perché tu sapevi perfettamente, anche se non capivi perché, che lui sarebbe stato il primo a non voler più parlare di tutte quelle parole che finiscono in “oggiopoli” e “alciopoli”. Semplicemente perché, solo grazie a lui, riuscivi a dare un senso alle plusvalenze nerazzurre (Coco per Seedorf, Carini per Cannavaro); e solo con quella fascia gialla stretta sopra il gomito, ma che sarebbe stata stretta volentieri attorno al torace, tu sei riuscito ad arrivare a vedere, su quella maglietta, due scudetti cuciti sul petto, uno dietro l'altro (seppur uno sia stato vinto al telefono, seppur nella maglietta che festeggia il centenario qualcuno ha confuso la data di fondazione dell'Inter scrivendo l'8 marzo al posto di 9 marzo).

    Solo grazie a Zanetti il tifoso interista è riuscito a sopravvivere alla poco eccitante letteratura interista, al micheleserrismo dell'“Inter è la metafora del mondo”, all'acutissimo beppesevergninismo che ha portato alla composizione di piccoli capolavori come “Il piacere di essere neroazzurri”, “Altri interismi. Un nuovo viaggio nel favoloso labirinto nerazzurro”, “Manuale dell'imperfetto sportivo”, “Tripli interismi! Lieto fine di un romanzo neroazzurro”. E la sua, quella di Zanetti, è esattamente la perfetta carriera del terzino destro, anche se un terzino destro vero non si fa espellere così poche volte in tredici anni. E' stato capitano dell'Inter, è stato capitano dell'Argentina e, in perfetto e drammatico spirito interista, è diventato famoso per aver perso una Coppa America contro il Brasile di Adriano dopo aver condotto mezza partita per 2 a 0 (Zanetti ha giocato 151 partite con la maglietta bianco e azzurra della Nazionale, poi il suo allenatore, dopo che Pelè lo inserì tra i 100 giocatori più forti del mondo, decise di non convocarlo più, e chissà perché una delle Argentine più forti da Maradona in poi – a parte il fatto di avere Nicolas Burdisso sulla linea difensiva – è stata eliminata ai quarti di finale in Germania, l'anno scorso). Ma Zanetti non è solo quell'eroe romantico epicamente descritto come il Dartagnan nerazzurro, lui è un vero genio, è il fenomeno dell'esportazione dell'interismo negli anni in cui, a dire Inter, quasi ci si toccava, se non eri Severgnini; l'unico grazie al quale, nell'Inter, c'è ancora qualcuno che può permettersi qualche doppio passo e che, ogni tanto, poi qualche pallone d'oro lo vince pure. E' lui l'unico che, da solo, ha sopportato, in ogni zona del campo, i 15 portieri, i 63 difensori, i 66 centrocampisti e i 42 attaccanti che hanno deliziato la Pinetina di Appiano Gentile negli ultimi dodici anni; l'unico che sa esattamente cosa intende Massimo Moratti quando, per spiegare l'interismo, parla di “un grande esercizio di pazienza”. Ed è proprio per questo, che – anche se non succederà mai – il giorno in cui Zanetti finirà di giocare a calcio, potrebbe essere lui il primo giocatore nella storia dell'Inter a veder il suo numero 4 ritirato dal campo; dopo 543 partite con l'Inter, dopo tredici anni tra Verdelli, Angloma, Domoraud, Silvestre, Fresi, Farinos, Vampeta, dopo dodici compleanni passati tra Helveg, Gamarra, Gilberto, Gresko e Macellari e con una sola, storica, maglietta buttata per terra, non si può che chiederlo, non si può che sognarlo, dato che Zanetti ha appena fatto 34 anni: e li ha fatti il dieci agosto, nove giorni fa, quando le stelle cadono giù, e tu esprimi un desiderio.

    • Claudio Cerasa Direttore
    • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.