Il racconto

Meloni ascolta Mattarella e frena sulla data del referendum. I contatti Mantovano-Conte-Schlein. Decreto Kyiv approvato

Carmelo Caruso

Il governo prima pensa di accelerare sulla data, il primo marzo, poi il passo indietro. Meloni prende tempo e riflette sui consigli del capo dello stato. Ipotesi il 22 marzo. Salvini non si presenta in Cdm (che approva il sostegno all'Ucraina)

L’anno sta per finire così: Salvini, provaci ancora. Meloni ascolta i consigli di Mattarella sul referendum, Mantovano telefona a Schlein e Conte per trovare un’intesa sulla data. Si doveva sfasciare un governo ed è finito con il Cdm punturina: già fatto? La disputa non è sulle armi ma sul referendum. Meloni è pronta ad accelerare (referendum il 1° di marzo) ma Mattarella, con la sua grazia, fa sapere a Palazzo Chigi: attenzione, io vi firmo il decreto ma rischiate ricorsi, rischiate che la Corte costituzionale cambi il quesito. Il senso? Fate voi. Meloni frena. L’altro, il decreto armi, è stato approvato e porta come titolo decreto armi. Kyiv non viene abbandonata. Il Cdm è stato aperto e chiuso in 15 minuti. Crosetto ha fatto Crosetto, in collegamento. Salvini non si è presentato. No, non si sono sfasciati. Non c’è stato il cataclisma Salvini e oggi la manovra dovrebbe essere approvata alla Camera. La contesa si sposta sulla giustizia. Meglio votare i primi giorni di marzo o meglio il 22? Si va verso il 22. La cronaca. In Cdm alla domanda: “Data referendum?”, la risposta è “approfondiremo”. Parte tutto dalla volontà del governo, di Mantovano, di convocare il referendum subito. Fino a sabato si parla di un “nulla osta” da parte del Colle. E c’è. Meloni come il presidente Toni Servillo de “La Grazia” si prende un ulteriore momento di riflessione. 


Il Cdm del 29 dicembre, che tutti avevano cerchiato come finimondo, prende la (non) piega della giustizia. A Palazzo Chigi si aggira anche Claudio Scajola. Ohibò. La ventilata decisione di fissare la data per il referendum (si ventila che è una bellezza) si infrange subito nel “faremo la prossima volta”. Questa è Meloni ai ministri, a fine Cdm: “Buon anno, e mettetevi a lavorare”. La speculazione è: non hanno inserito la data, perché non l’hanno inserita? La stavano per inserire. C’è la mano di Mattarella. Semmai c’è la sua sapienza da nonno e Meloni la recepisce da buona nipote. I garantisti del governo lasciano intendere che il Colle avrebbe sollevato il ciglio, ma solo un ciglio. I giuristi di governo: “Dobbiamo essere certi che non ci siano ricorsi al Consiglio di stato. Ma ricordiamo. La decisione spetta a noi”. Lo pensa anche Mattarella. Fa sapere che lui è pronto a firmare, è tutto in regola, ma forse, ma magari… Perché rischiare?

 

Il titolo di un giornale di Milano sarebbe “Decreto Kyiv approvato, riflessione sul referendum”. Se fossimo in una redazione romana il titolo ideale potrebbe essere “L’altolà di Mattarella sul referendum”. Se si desse il timone al grande Feltri si potrebbe provare con “Il referendum dei rosiconi”. Il governo vuole accelerare e per diverse ragioni. C’è da cavalcare l’indignazione per il caso Hannoun. Si vuole accelerare anche solo perché marzo è il mese delle idi e intanto si avvicina Pasqua e la pressione allenta. Dice Giorgio Mulè, il vicepresidente della Camera, a capo della campagna per il sì, il Verri di Tajani, che “la sinistra spera di allungare i giorni per tirare fuori qualche altro fantasma dall’armadio contro il no, terrorizzare un paese che vuole la riforma”. Il decreto armi viene introdotto da Mantovano. Ma la notizia la porta  Nello Musumeci, appena esce da Chigi: “Niente data sul referendum”. Nessuno vi dirà, al governo, che la decisione era stata presa, e che puntavano all’uno marzo, vi diranno con sapienza gaucha, ascoltate: “Non sarebbe stata una forzatura inserirlo nel Cdm del 29 dicembre e non è un rinvio inserire la data al prossimo”. Questa è la linea. Solo che Meloni non può permettersi di non ascoltare Mattarella e non vuole neppure, sotto le feste, farsi rovinare il fegato dal golpe della data che agita M5s e Pd. Ormai a sinistra il calendario vale più dei saggi di Zagrebelsky. Del resto, a che serve? La destra finisce l’anno con la calza piena. Meloni attende la pace di Trump ed è pronta a volare con Macron in America, la riforma della Corte dei Conti è stata approvata. Leggete questa nota di FdI, interna, e capirete che sono passati alla fase dell’abbiamo vinto ma  non esageriamo. Si stanno andando a prendere le imprese, quelle che Urso fa scappare, e le vanno a prendere con la riforma della Corte dei Conti, una riforma definita da FdI “strutturale, necessaria coerente con la più ampia riforma della giustizia portata avanti in questi anni. L’obiettivo principale è porre fine alla paura della firma che paralizza la pubblica amministrazione e frena lo sviluppo”. Di più, sempre nella nota, scrive FdI: “Non ha nessun fondamento l’idea che la riforma sia stata concepita come una vendetta per il no alla corte dei Conti al Ponte sullo stretto di Messina”. La giornata non è delle migliori per Salvini. Alla Camera i leghisti svapano. Insomma, cosa ne pensa Salvini del decreto armi che lui semanticamente è convinto di aver modificato come fosse Gadda? Ecco l’altra nota della Lega, fonti: “C’è tanta soddisfazione. I suggerimenti sono stati recepiti e si è data priorità agli strumenti difensivi, logistici e sanitari per aiutare la popolazione civile, piuttosto che ad altro”. Salvini finisce di scriverlo e arriva un altro comunicato, strappalacrime, del Mit. Questo il titolo: “Mit, da gennaio aggiornamento tariffe, vanificato sforzo Salvini”. Se la prende con una sentenza della Corte costituzionale che avrebbe “vanificato” i suoi sforzi, solo che, nota Andrea Casu del Pd, se la Corte boccia, la colpa è della Corte o di Salvini che “scarica la colpa su qualcun altro?”. Alla Camera si aggira Tajani, in forma eccezionale, che sulla data del referendum spiega: “Non c’è ancora nessun accordo ma cambia poco se si vota quindici giorni prima o dopo, quello che conta è il giudizio dei cittadini”. L’accordo lo cerca Mantovano. La parola è “contatti”. Contatti fra Mantovano, Schlein e Conte. Tanto rumore, per venti  giorni. Per dare il bacio della buonanotte (sulle pensioni) sbuca Giorgetti che in Aula comunica a Salvini (c’è un odg della Lega) che il prossimo anno lo stop sull’aumento dell’età pensionabile “è tutto da vedere”. Vannacci ad Affari Italiani rende ancora più frizzante queste ore conclusive del 2025: “Il Parlamento non approvi il decreto Ucraina”. Mattarella sta scrivendo il suo discorso di fine anno. Claudio Borghi continua a postare bozze del decreto Ucraina, prima e dopo. Poteva andare peggio. Si poteva inceppare la stampante.
 

  • Carmelo Caruso
  • Carmelo Caruso, giornalista a Palermo, Milano, Roma. Ha iniziato a La Repubblica. Oggi lavora al Foglio