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Solo la sinistra può salvare Meloni, dividendosi. L'agenda per una Margherita 4.0

Matteo Renzi

L’economia è la chiave per giocare la partita del 2027. Se il centrosinistra parla di tasse e sicurezza può davvero  battere Meloni. Le emergenze rimosse, le favole del centrodestra,  le derive a sinistra da combattere e il 2 per cento che può cambiare le elezioni. L’agenda dell’ex premier 

"L’Italia è forte, la Nazione è tornata, Meloni è il nostro profeta”. Questo il ritornello che ripetono da mesi i cantori della destra, a reti unificate. Secondo loro a Giorgialand va tutto bene: in tre anni questo paese è diventato il Paradiso terrestre senza che nessuno di noi screanzati abbia fatto in tempo ad accorgersene. Siamo più ricchi, più belli, forse persino più magri, più potenti, più tutto: il Grand Hotel Abisso che racconta il Censis è roba da comunisti. E chi non la pensa come la maggioranza è un disfattista o, peggio mi sento, un’Albanese, intesa come Francesca. O una Salis, intesa come Ilaria. Piano con le provocazioni, eh…

Per quelli come noi, quelli cioè che invece non credono che con Meloni sia iniziata l’età dell’oro ma che contestualmente rifiutano la deriva devastante e distruttrice del melenchonismo all’italiana delle finte avvocatesse dell’Onu o delle vere occupatrici di case, beh per quelli come noi non è facile provare a spiegare le ragioni di quella che un tempo si sarebbe chiamata Terza via. Che poi quelli che odiano Blair dimenticano come quell’uomo abbia letteralmente salvato il Regno Unito e permesso a Londra di tornare a guidare il mondo, almeno prima della Brexit. Vabbè, non divaghiamo.

Eppure tra l’ideologismo della Albanese e della Salis e questa destra che ci governa ci sarebbe uno spazio fertile, tutto da riempire di contenuti. Lo spazio che io penso appartenga alla Casa Riformista, una Margherita 4.0 capace di aiutare il centrosinistra a vincere le elezioni politiche del 2027. Ma per farlo serve una visione della società italiana meno schiacciata sul presente e un elenco praticabile di soluzioni. A cominciare dai due punti su cui Meloni ha totalmente perso il contatto con la realtà: le tasse e la sicurezza.
Attenzione: servono anche valori, ideali, orizzonti. Non solo concretezza. Ne parleremo nel corso del 2026. Ma adesso concentriamoci sulla legge di Bilancio e sullo stato dell’economia. La sfida dell’anno che sta per iniziare è tutta qui. Costruire un’alternativa credibile sulla concretezza della vita quotidiana e sulle proposte per il portafoglio. E costringere Meloni a stare su questo terreno anziché scivolare nella lotta del fango dell’ideologismo senza limitismo: perché quando la Meloni scappa dalla realtà, vince. Ma se la inchiodi sulla concretezza perde. E soprattutto si perde. Si vede che prima di Palazzo Chigi, Giorgia non ha mai governato un comune, un’azienda, nulla: cita statistiche che le preparano ma che non padroneggia.

Già, perché a Giorgialand nessuno ha il coraggio di dire una semplice verità: l’economia è il tasto dolente del melonismo. Ed è sull’economia – non sulla giustizia, non sulla politica estera, non sull’ideologia – che l’opposizione dovrà incalzarla per mandarla a casa.

Il vantaggio degli articoli che il direttore Cerasa chiede per il Foglio del lunedì è che sono talmente lunghi che permettono di sbloccare ricordi del passato. Tornare indietro trent’anni con la mente e provare a fare similitudini con il passato. Alla sinistra italiana in questa fase serve più Clinton che Blair o Obama. Ricordate il 1992? Sembrava impossibile battere Bush padre, allora: aveva vinto la prima guerra irachena, qualche mese prima delle elezioni aveva un tasso di approvazione pazzesco, era crollato il Muro di Berlino, aveva tutto il potere del mondo. Il semisconosciuto governatore dell’Arkansas, un giovane Bill Clinton, spiegò che bisognava puntare tutto sulla situazione finanziaria del ceto medio: it’s the economy, stupid. E fece il miracolo, anche grazie alla candidatura di disturbo di Ross Perot. E sul fatto che una candidatura di disturbo possa scompaginare i piani della Meloni torneremo tra qualche mese, ancora è presto. Per adesso ci basti sapere che i democratici vinsero con il giovane David del profondo sud mentre il Golia texano, Comandante in Capo del Mondo Libero, fu abbattuto a sorpresa. 

Se vogliamo giocarci la partita del 2027, dobbiamo assumere il postulato che è l’economia la chiave di volta di tutto. Cominciando dalle tasse, che la destra doveva ridurre e che ha aumentato portando la pressione fiscale al 42,8 per cento. Tranne l’aria hanno tassato tutto: le sigarette, l’Rca auto, i pacchi, il gasolio, la casa, persino la Tobin Tax che la Lega voleva cancellare e che invece Giorgetti ha raddoppiato, gli investimenti finanziari e persino l’Irap che Berlusconi chiamava Imposta rapina. A proposito: sarà un caso che sui social e negli Aprés-sky stia spopolando un ritornello “ma quando c’era Silvio, si stava molto meglio”. La cantano a squarciagola ragazzini che non hanno neanche la minima idea di chi fosse Berlusconi e sicuramente ci sono tanti fattori poco politici che spiegano il successo di questa hit. Ma la verità è che ormai anche i più meloniani hanno capito che è impossibile sostenere che vi sia una continuità tra la destra di vent’anni fa tutta proiettata sul messaggio “meno tasse per tutti” con la destra di oggi tutta “tasse e marchette”: Berlusconi sognava di essere la destra liberale, Meloni rappresenta lo statalismo senza limiti. 

Se saremo bravi a giocare su questa contraddizione sposteremo quel 2 per cento decisivo per la vittoria del centrosinistra alle prossime elezioni. Se guarderemo solo a sinistra la Meloni stravince in carrozza. Parentesi: non sottovalutate chi sposta il 2 per cento. O se volete sottovalutarlo, prima guardate quante volte le elezioni si sono giocate con un range del 2 per cento. Chiusa parentesi.

Fino a oggi, del resto, alla leader della Garbatella ha funzionato tutto benissimo. Intanto perché l’opposizione si è sempre divisa, a cominciare dal tragico errore del settembre 2022. Ma adesso ci sono segnali di vita dalle minoranze che forse sono ancora flebili ma che sarebbe un errore non evidenziare. La stessa coalizione si è presentata insieme nelle ultime sei regionali, con lo stesso format. E’ finita 3-3 come numero di vittorie, ma in termini di voti assoluti il centrosinistra è davanti, almeno in queste sei regioni. E sarà anche un caso ma il giorno dopo le sonore batoste di Puglia e Campania, Fratelli d’Italia ha chiesto di rivedere la legge elettorale. Perché diciamolo: il pericolo che annusano dalle parti di via della Scrofa (niente battute, è solo la sede del partito di maggioranza relativa, l’ufficio di Donzelli e Arianna Meloni, insomma) non è quello del pareggio o dell’instabilità, ma la certezza che ci sono vaste zone del paese dove il centrosinistra unito fa il pieno di collegi. Il pieno! E dunque la destra non ha paura di pareggiare: ha paura di perdere. 

Il giorno dopo che Giorgia avrà perso – o banalmente: non vinto – partirà nei suoi confronti una caccia all’uomo, anzi alla donna, che pochi possono capire come il sottoscritto. Gente che oggi è inginocchiata e prona a ogni volere delle sorelle Meloni improvvisamente si scoprirà da sempre di sinistra, rispolvererà la tessera del Pd, farà professione di europeismo, giurerà di non aver mai conosciuto nessuno del governo uscente. Sarà il trionfo dell’ipocrisia e del servilismo, in segno uguale e contrario a quello che ha accompagnato l’ascesa della destra nel 2022. In Italia le cose funzionano così da secoli: la Meloni è ossessionata dalla vittoria nel 2027 perché immagina (e forse non immagina nemmeno fino in fondo) quello che le accadrà dal giorno dopo. Ci sono passato, credetemi, so di cosa parlo.

In più qualche pasticcio gli uomini della Meloni – a cominciare da Alfredo Mantovano – l’hanno combinato davvero. Hanno triplicato i soldi per i servizi segreti con la scusa della guerra ibrida e però neanche riescono a capire chi ha messo lo spyware di Paragon sul telefonino di Caltagirone e di Cattaneo, non solo di Dagospia o di don Mattia. Perché, parliamoci chiaro, questa cosa non interessa a nessuno ma riguarda tutti. Se lo stato non ha limiti, diventa assoluto, ab-solutus, cioè sciolto da qualsiasi controllo. E lo stato assoluto significa fare un passo indietro di un secolo nella storia della libertà e della democrazia. E rimanessi anche l’unico a chiedere giustizia e verità per i giornalisti, per gli attivisti, per gli imprenditori, per i sacerdoti, potete giurarci che farò sentire la mia voce. Persino quando autorevoli esponenti del mondo dell’opinione pubblica, con fare paternalistico, mi dicono: “Ma lascia stare, queste cose non interessano ai sondaggi”. E’ vero. Ci sono battaglie che servono per i sondaggi e dobbiamo farle anche noi, più di prima. Ma poi ci sono battaglie che non ti fanno guadagnare punti nei sondaggi eppure ti servono la mattina per guardarti allo specchio e ricordarti che fai politica per dei valori e non solo per delle percentuali. E su queste battaglie io ci sono, non mollo, non diserto. Mai. Si sappia. In ogni caso questo inciso serviva solo per dire che il giorno dopo che la Meloni perde Chigi, viene giù un mondo di segreti che questi hanno custodito gelosamente con la forza del potere. Perché quando fai una intrusione abusiva, ormai, lasci tracce. E con le nuove tecnologie sarà possibile tracciare tutti quelli che quelle intrusioni abusive hanno fatto. E poiché con questo governo sono cominciate le purghe rispetto ai dirigenti che servivano con i governi di prima (fatto gravissimo e inedito), difficile non pensare che questa scelta non costituisca un precedente per il dopo. Sono come le noccioline di Super Pippo, ricordate il fumetto? Appena finisce l’effetto, puf, Mantovano non è più Super Pippo e ritorna a fare Pippo. Chi conosce il mondo dell’intelligence e soprattutto di Walt Disney sa a cosa mi riferisco. Torniamo alle elezioni.
Che Giorgia sia ossessionata è un fatto e non è un caso che questo avvenga proprio mentre il centrosinistra abbandona le divisioni e inizia a organizzarsi anche in Parlamento. Abbiamo presentato insieme sedici emendamenti, a cominciare dalla proposta lanciata da Tommaso Nannicini e dai suoi colleghi, sulla tassazione premiale per i più giovani, la Start Tax. La vera emergenza del paese è che abbiamo quasi duecentomila fughe dall’Italia ogni anno e spesso se ne vanno le persone con più talento, i più giovani, i laureati. Il centrosinistra, tutto unito, ha fatto una proposta per bloccare questo esodo: è la prima volta, interessante no? C’è vita tra le opposizioni. E la cosa incredibile è come mai Meloni e Salvini abbiano così tanto in odio gli studenti che vogliono laurearsi, come se studiare nell’Italia del 2025 sia diventato ormai un peccato. Laurearsi non può essere una colpa come gli abitanti di Giorgialand fanno credere a cominciare dai vertici del governo, ministra dell’Università inclusa che prima fa il pasticcio del semestre filtro a Medicina e poi insulta gli studenti. 

Il paradosso è che questo governo si accanisce sui laureandi ma tollera i maranza. Un mondo davvero al contrario, direbbe il Generale Vannacci se facesse ancora politica come due anni fa. Più svuoteremo le città di studenti facendoli fuggire, più consegneremo le periferie ai maranza e all’illegalità. Quando dicevamo un euro in cultura, un euro in sicurezza, ci prendevano in giro: ma senza un doppio investimento in questi settori ci perdiamo un’intera generazione. Riappropriarsi della bandiera del merito, del talento, della legalità, della sicurezza significa assestare un colpo da ko a chi prometteva tolleranza zero e ha visto nel 2024 aumentare i reati – specie giovanili – rispetto al 2023. Nel frattempo, l’Albania è piena di carabinieri e poliziotti che giocano a briscola mentre attendono che i centri migranti fun-zio-ne-ran-no. Noi che siamo pratici abbiamo proposto da mesi la soluzione perfetta: fare di questi centri delle carceri dove detenere i cittadini albanesi che oggi affollano le carceri italiane. Sarebbe l’uovo di Colombo: riduciamo il sovraffollamento carcerario, rendendo meno indegne le nostre prigioni. Diamo senso a un accordo Meloni-Rama che è ideologico e poco concreto. Evitiamo lo spreco di risorse pubbliche. Riportiamo carabinieri e poliziotti in Italia, nelle nostre stazioni, nelle nostre strade. Qual è il problema? Semplice. Che l’ha proposto Italia Viva, che l’ha suggerito Renzi. E allora anche se è una buona idea, non si fa. Perché per Meloni viene prima la necessità di attaccare gli avversari anziché difendere il paese. Eppure per evitare sprechi oggi e sentenze domani tutte le strade portano a… Rama. Edi Rama, grande amico della Meloni, è disponibile a fare di quelle strutture un carcere: perché Giorgia si incaponisce?

Ma questa legge di Bilancio rappresenta il primo vero inghippo nella marcia trionfale delle Sorelle d’Italia. Sono riusciti nel capolavoro di mostrarsi litigiosi (lo sono sempre, ma stavolta lo sono anche sembrati ed è un inedito), di tradire tutte le promesse elettorali dal benzinaio al pensionato, di non accontentare nessuno dei tanti laudatores che a ogni assemblea tributano applausi alla Meloni salvo poi lamentarsi in privato della fuffa inconcludente dei decreti e della incapacità insopportabile dei ministri: nella classifica Adolfo Urss Urso vince tutti i premi del ministro più dileggiato in privato e più ignorato in pubblico.

Chiedete a qualsiasi imprenditore di Confindustria che cosa pensi di Urso: se non ci sono telecamere, microfoni, taccuini vi farete due risate. O forse, meglio, due lacrime.
Dicono i sostenitori: poverina, Giorgia non ci ha una lira. Magari fosse questo il problema, ribatto io. Il problema non è che non ha soldi. Il problema è che non ha un’idea, non ha una visione, non ha un disegno. 

Il dramma del Bilancio 2026 non si misura in ciò che la legge presenta, ma in ciò che manca. A cominciare dal fatto che manca la speranza, la speranza che l’Italia possa capitalizzare il bene più prezioso di questa legislatura: la stabilità. Ma quando il governo è pieno di incapaci, ciò che gli ottimisti chiamano stabilità, i realisti chiamano immobilismo. 

Un compitino fatto male, da studente svogliato, sfregiando ancora una volta il Parlamento e con l’aggiunta di mosse più ridicole che ideologiche: mentre tutti i paesi seri studiano strategie per essere protagonisti nel mondo delle materie prime, il cosiddetto mondo “metal and mines”, da noi abbiamo passato tre settimane a discutere su come formulare un emendamento allucinante circa la proprietà dell’oro. E poi il senatore sovranista Borghi ha spiegato di aver vinto la sua battaglia dicendo che l’oro adesso è del popolo italiano. E non di Banca d’Italia. Ora se c’è un politico che negli ultimi dieci anni ha litigato con Banca d’Italia, scoprendo a sue spese, sulla sua pelle, che la qualità che Banca d’Italia aveva trent’anni fa non c’è più, purtroppo, quello sono io. E se tornassi indietro direi alcune cose su Banca d’Italia con ancora più nettezza, altro che storie. Ma sostenere che il problema dell’Italia sia la proprietà delle riserve aurifere è una barzelletta che non fa ridere. Intervenendo in Aula ho proposto che il senatore Borghi sia conseguente: si faccia consegnare da Meloni uno dei numerosi nuovi aerei di stato appena comprati da Giorgia (eh già, hanno giustamente preso almeno quattro nuovi aerei di stato, quantum mutatus ab illo), si rechi a Fort Knox o alla Fed o dove si trova l’oro italiano e pretenda da Trump di farselo consegnare immediatamente. E non rimetta piede in Patria senza riportare a casa tutto l’oro che – secondo la Lega – grazie a questa legge di Bilancio è tornato in mano ai cittadini. Se è dei cittadini che siano coerenti: Borghi lo vada a prendere e ce lo riporti indietro. Sono certo che Trump non veda l’ora di aiutare Borghi e caricare il Gulfstream di Giorgia di lingotti d’oro, no?

Quanta banalità in questo populismo. 

Quanta superficialità in questa classe dirigente. 

Quanta mediocrità in questa legge di Bilancio

La legge di Bilancio 2026 doveva contenere venticinque miliardi per contrastare i dazi annunciati da Giorgia Meloni, quindici miliardi per un piano casa svelato da Giorgia Meloni ad agosto al meeting di Rimini, otto miliardi per le imprese promessi da Giorgia Meloni dopo la standing ovation – l’ennesima – di Confindustria. E naturalmente più soldi per le pensioni, più soldi per il ceto medio, più soldi per la famiglia. 

Su queste roboanti promesse si è giocato il circo mediatico di tutto l’anno solare che va terminando. Gli annunci della premier sono stati presi come atti aventi forza di legge dagli addetti ai lavori e da talune testate compiacenti. E il ritornello: cresciamo più di tutti in Europa e nel mondo è stato rilanciato, sempre più timidamente, fino alla scoperta dell’amara verità.

Guardiamo i dati, in modo onesto. 

E’ la stessa relazione tecnica a dire che la legge di Bilancio non porterà alcun beneficio sul pil. Incredibile, vero? Sono i dirigenti della Ragioneria generale dello stato a mettere nero su bianco che il +0,7 per cento previsto sul pil viene essenzialmente dalla coda del Pnrr e non dalle misure di Giorgetti.

E qui c’è un primo punto da discutere: in Giorgialand nessuno si sta preoccupando di ciò che succedere un minuto dopo che il Pnrr sarà terminato. Abbiamo salvato il paese dalla recessione solo grazie al Pnrr: perché nessuno sta pensando al dopo? A come gestire la transizione, a come garantire un atterraggio morbido. Guardate che questo tema è molto più serio di quanto sembri: ci giochiamo il futuro di pezzi interi della nostra economia, eppure sembra che non interessi a nessuno. E più in generale: che si fa sull’intelligenza artificiale? Che si fa sul quantum computing? Che si fa sull’energia visto il fallimento dello stupido Green Deal? Come si alimenta l’economia dello spazio e del mare? Vabbè, sono temi che il governo dei patrioti non maneggia, chissà perché.

Continuiamo con i numeri. Il rapporto debito/pil cresce, non cala. La strategia di Giorgetti non è la prudenza, è l’austerity: sta crescendo il rapporto debito/pil, altro che storie. La crescita è tra le peggiori d’Europa, altro che locomotiva: se guardate al pil previsto per il prossimo biennio, nella classifica dei paesi dell’Ue l’Italia è in piena zona retrocessione. Siamo ultimi o penultimi in classifica e scriverlo mi fa male perché tifo per l’Italia, non contro l’Italia: ma sono soprattutto tifoso della Fiorentina e dunque mi fa male parlare di classifica e retrocessione anche per altri motivi, molto più calcistici e dunque molto più drammatici. Lasciamo stare che è meglio.  La pressione fiscale cresce sfiorando il 43 per cento nonostante Meloni avesse chiesto di stare sotto il 40 per cento persino modificando la Costituzione. Il carrello della spesa vede gli alimentari segnare un +25 per cento in quattro anni: per Giorgia è sempre colpa degli altri, ma difficile scaricare le responsabilità dopo aver detto per mesi che sei la le leader più longeva. Perché la longevità ha questo come effetto: che le responsabilità te le prendi tutte in faccia. Non puoi dare la colpa a Giolitti o Cavour se negli ultimi tre anni sei stata tu al comando di Roma come di Bruxelles.
Meloni ribatte: abbiamo un numero record di occupati. Per forza: con la Fornero andare in pensione è più difficile. E quindi aumentano fisiologicamente i lavoratori. Anche qui: non uno che abbia la forza di ammettere che contro Elsa Fornero, ministro del lavoro di Monti e autrice della riforma delle pensioni si è compiuto un gigantesco e infame massacro mediatico. Regista Matteo Salvini, certo: l’uomo che andava sotto casa Fornero a dire “Mi prudono le mani”. Sarebbe da rispondergli adesso: e allora prenditi a schiaffi dalla vergogna. Ma Giorgia Meloni ha dato manforte a questa guerra senza frontiere a questa mite professoressa piemontese. Meloni dice: abbiamo ridotto lo spread sulla Germania e recuperato posizioni sulla Francia. Ed è vero, e siamo contenti. Ma nessuno racconta che nel frattempo la Grecia ci ha sorpassato. La Grecia, ok? è il mondo che è cambiato, non è Giorgia Meloni ad aver fatto la rivoluzione.

Tant’è vero che cresce il numero di chi dice di star peggio di tre anni fa. 

La partita nel 2027, per me, sarà tutta qui. La domanda dovrà essere una: state meglio o peggio di cinque anni fa? Se come credo la maggioranza sta peggio, o pensa di star peggio, c’è solo una possibilità per consentire alla Meloni di vincere ancora e ipotecare il Quirinale 2029: andare divisi. Non solo elettoralmente, si capisce. Andare divisi significa anche andare litigiosi, privi di programma, senza una speranza da offrire agli italiani. Per me la sfida deve essere incentrata sul fare dell’Italia un luogo che torna a attrarre il talento, che scommette sull’educazione, che investe sulla cultura. Nel tempo dell’intelligenza artificiale la cancel culture non è solo la filosofia woke, più debole di cinque anni fa ma ancora presente: il vero modo di cancellare la cultura è ignorare le radici, disincentivare gli studenti, ideologizzare il pensiero, allontanare dalle librerie, dai teatri, dalle biblioteche. Cacciare i giovani di talento dall’Italia, come sta accadendo, significa consegnare praterie alla banalità quando va bene e all’illegalità quando va male. E qui sta il fallimento più grande della destra come gli intellettuali realmente conservatori hanno provato a far notare. Quando il ministro Giuli – che già scritta così sembra un ossimoro –  attacca Veneziani colpevole di aver svelato il segreto di Pulcinella e cioè la mediocrità di questo esecutivo, quando alla guida del ministero hai messo Sangiuliano ma non Cardini o Buttafuoco, quando se un giornalista di destra critica l’esecutivo non lo inviti ad Atreju perché deve andare in punizione, ti mostri per quello che sei. La verità è che Giorgialand è messa molto peggio del previsto: gli scricchiolii si sentono a destra, si sentono nel ceto medio, si sentono nel mondo dell’impresa. Solo la sinistra può salvare Meloni: dividendosi. Lo ha già fatto nel 2022 a Roma e poi in altre consultazioni elettorali, dalla Liguria alla Basilicata. 

Se il centrosinistra parla di tasse e sicurezza, Meloni va a casa. Se il centrosinistra si fa guidare da Albanese e Salis (Ilaria Salis, si capisce), Meloni va al Quirinale.

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